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I concorsi internazionali di esecuzione musicale rappresentano senza dubbio un importante banco di prova per un giovane interprete: si tratta di occasioni fondamentali per misurarsi con il palcoscenico, per farsi ascoltare da una platea vasta e qualificata, e, nei migliori dei casi, per intraprendere una gratificante attività concertistica. È naturale, dunque, che la maggior parte degli studenti di musica considerino la preparazione dei concorsi importanti come il fine principale del loro lavoro. Vale la pena, allora, analizzare l’approccio diffuso dei giovani interpreti verso i concorsi, alla luce delle reali esigenze del mondo concertistico, che non sempre coincidono con le prerogative necessarie alla vittoria di una competizione. Oggi per un musicista non è più sufficiente vincere un primo premio importante per avere la certezza di intraprendere (e tanto più mantenere) una vera, stabile professione concertistica. E a volte di primi premi non ne bastano neanche quattro o cinque: i concorsi possono offrire grosse somme di denaro, numerosi concerti anche in sedi prestigiose, ma la gloria tende ad esaurirsi nel giro di alcuni anni (di solito fino alla proclamazione del vincitore successivo), se il vincitore non ha tutte le carte in regola per affrontare la reale vita concertistica. Quali sono dunque le doti che un musicista in carriera deve possedere? Per rendersene conto, basta osservare quelli che sono gli attuali grandi interpreti. Oltre al talento ed alla cultura (che sono ovviamente i requisiti minimi indispensabili), essi in massima parte possiedono una straordinaria versatilità, ossia sono in grado di eseguire molti programmi di recital in pochi giorni, spesso alternando l’attività solistica a quella cameristica. Le grandi agenzie tendono a lanciare un giovane talento in maniera spesso brutale, programmando un numero elevato di concerti importanti in giorni ravvicinati. A volte basta un minimo cedimento nervoso per compromettere una carriera. Ergo: anche per un’intensa attività concertistica occorrono nervi d’acciaio. Vanno rodati ed allenati regolarmente, e non è detto che la sola esperienza dei concorsi sia sufficiente, anche perché si tratta di un diverso genere di stress. Quasi mai in una competizione è richiesto di imparare un nuovo brano in pochi giorni, o di preparare un concerto o un programma di recital in un periodo molto limitato: situazioni, queste, che spesso capitano ad un concertista, specie ad un giovane a cui si chieda una sostituzione dell’ultima ora. Ma, soprattutto, un vero interprete deve assolutamente possedere una personale coscienza critica, ponendosi in rapporto con la storia dell’interpretazione e della civiltà: l’approccio con la musica è in continua evoluzione, parallelamente con lo sviluppo della società e della cultura contemporanea.
Un’altra caratteristica molto importante per il successo di un concertista è la vastità e l’originalità del repertorio, nonché la creatività nell’impaginare i programmi di recital: difficilmente chi suona esclusivamente le musiche più conosciute e di frequente ascolto riesce a sviluppare una carriera soddisfacente. È inoltre molto stimolante eseguire brani di autori conosciuti solo marginalmente, anche se non geniali come Beethoven o Chopin; oppure proporre, degli stessi compositori più noti, anche i pezzi di ascolto meno frequente (e sono proprio molti, in gran parte vittime di un ingiusto oblio). In tal modo il ruolo dell’interprete assume anche una funzione divulgativa particolarmente utile, contribuendo all’arricchimento culturale della propria società. Per un esecutore è particolarmente gratificante, inoltre, collaborare direttamente con i compositori contemporanei: un modo per integrare il ruolo del concertista nel momento attuale, smentendo il luogo comune secondo cui gli strumentisti “classici” svolgono un mestiere anacronistico.
I concorsi, purtroppo, non sempre agevolano affatto simili aperture: anzi, essi di solito prescrivono un repertorio tradizionale, costituito in gran parte da alcuni capisaldi della produzione strumentale. Se da una parte ciò consente di valutare al meglio le qualità esecutive del concorrente, grazie anche al confronto con una vastissima discografia e una lunga tradizione interpretativa, d’altra parte, in tal modo i “concorsisti” si troveranno tutti con un repertorio simile, spesso non molto esteso, ed incentrato su musiche arcinote ed inflazionate, sulla cui interpretazione è ben difficile (nonché rischioso, in sede di concorso!) aggiungere qualche nuovo elemento.
L’esigenza di raffinare al massimo la preparazione strumentale spesso li induce a concentrare lo studio su quei pochi “cavalli di battaglia” (a volte si tratta degli stessi pezzi da oltre dieci anni) da sfoggiare nelle competizioni, senza poter ampliare sufficientemente il loro repertorio e, conseguentemente, il loro bagaglio culturale.
Certo, è giusto che un giovane interprete affronti le opere più rappresentative per il suo strumento, ma va da sé che cento musicisti (pur bravi e preparati) che suonano gli stessi pezzi non troveranno tutti uno sbocco adeguato nella vita concertistica. I “concorsisti” peraltro spesso rinunciano all’apprendimento di brani di più raro ascolto, per paura che questi vengano considerati con sufficienza, se non con pietosa ilarità, da alcuni giurati. Il candidato che propone qualcosa di “originale” può in effetti dar l’impressione di voler evitare il confronto diretto con i “rivali”, e di voler così camuffare la propria inadeguatezza ad affrontare il repertorio tradizionale.
Invece proprio quei brani potrebbero offrire maggiore successo e notorietà ad un giovane musicista: del resto, la fama di alcuni degli attuali interpreti più affermati è proprio legata all’originalità del loro repertorio. Lo stesso Maurizio Pollini ha esordito con la Deutsche Grammophon in un cd dedicato a musiche di Webern, Boulez, Prokofiev e Strawinsky (allora i Trois Mouvements de Petroushka non erano di moda come oggi), ed è stato tra i primi a presentare regolarmente nei suoi recital musiche di Schoenberg, Boulez, Stockhausen e Sciarrino. E, facendo un passo indietro, va ricordato che Walter Gieseking ha legato il suo nome alla divulgazione delle musiche di Ravel e Debussy, ed Arthur Schnabel non sarebbe tanto celebre se non fosse stato il primo ad incidere tutte le sonate di Beethoven ed a presentare in concerto l‘integrale delle sonate di Schubert, quando esse erano del tutto ignote al grande pubblico. Più recentemente, star (pur non ancora celeberrime in Italia) del calibro di Marc André Hamelin e Pierre Laurent Aimard hanno guadagnato il successo grazie alle incisioni di autori come Godowsky, Alkan (Hamelin) e Ligeti (Aimard). E c’è ancora una infinità di composizioni in attesa di una meritata riscoperta, o addirittura di una prima esecuzione!
Con quanto detto non si intende certo scoraggiare l’apprendimento del repertorio tradizionale. Anzi, proprio dalla frequentazione di musiche meno conosciute, di territori “vergini” dal punto di vista della tradizione esecutiva, è possibile trarre una nuova freschezza di idee, con benèfici effetti sull’approccio con le composizioni di repertorio.
E qui veniamo ad un altro punto saliente: siamo sicuri che i concorsi incoraggino l’approfondimento interpretativo e la ricerca di nuovi aspetti dell’esecuzione? A giudicare dai verdetti di molte recenti competizioni internazionali, pare proprio il contrario. Spesso, come più volte è stato osservato, i candidati dotati di maggior personalità vengono penalizzati poiché destabilizzano l’ascolto: essi richiedono una maggiore concentrazione, un superiore sforzo di adattamento da parte dei giurati, i quali non sempre sono propensi a mettere in discussione le proprie idee, specie quando ascoltano musica per dieci ore al giorno. Invece i concorrenti che propongono esecuzioni più neutre, prive di elementi originali o innovativi, hanno spesso vita facile ed incontrano maggiori consensi durante la competizione, per poi scomparire rapidamente dalla vita concertistica.
La consapevolezza di questo meccanismo influenza, purtroppo, anche la preparazione dei “concorsisti”. Quante volte gli insegnanti ammoniscono: “attento a non esagerare, altrimenti ti eliminano”! Insomma, la paura di essere in qualche modo “attaccabili” può determinare nei candidati la costante ricerca di un utopistico equilibrio interpretativo, che nei migliori dei casi comporta esecuzioni neutre e prive di individualità, e nei peggiori è sinonimo di mediocrità e carenza creativa (la quale, peraltro, può paradossalmente rivelarsi un’arma “vincente”).
È evidente che la causa prossima di una simile mentalità va ricercata nella composizione delle giurie. Scorrendo i nomi dei giurati dei recenti grandi concorsi pianistici internazionali saltano all’occhio alcune interessanti singolarità: quasi tutti sono pianisti, o ex pianisti, o insegnanti di pianoforte. Salvo poche eccezioni, mancano i direttori d’orchestra, i compositori e comunque altri musicisti non pianisti. Perché? La giustificazione è presto data: se i giurati non conoscono la letteratura dello strumento che ascoltano, non saranno in grado di giudicare adeguatamente. Ma sarà proprio così? Credo di no: anzi, proprio in virtù di una visione astratta e non meccanicistica dell’esecuzione, essi potrebbero avere una percezione più libera da pregiudizi e preconcetti. Del resto, una giuria di soli pianisti in un concorso pianistico può corrispondere ad una giuria di sole “miss” o ex “miss” alle selezioni di miss Italia. Va da sé che il pianista giudicherà un suo collega con un inevitabile, anche se spesso inconscio, confronto con se stesso, con le proprie scelte, con le proprie esperienze esecutive (peggio ancora se il malcapitato concorrente viene visto come un temibile rivale). Così come è probabile che una ex “miss Italia” preferisca la candidata che più le ricorda se stessa da giovane!
La presenza di insegnanti, poi, comporta molteplici conflitti di interesse, specie quando sono in gara i loro stessi allievi. E non serve a molto la consueta regola di far astenere il maestro dal votare per il proprio “protetto”: egli potrà sempre agevolarlo con voti di scambio oppure attribuendo punteggi molto bassi ai rivali più pericolosi.
Vi sono, inoltre, una decina di nomi (e non si tratta certo di personalità artistiche di spicco!) che compaiono regolarmente in molte delle giurie dei concorsi pianistici più prestigiosi. Guarda caso, si tratta spesso di insegnanti che sono anche presidenti o direttori artistici di qualche concorso. Costoro, invitandosi reciprocamente, determinano una poco salutare uniformità, non solo nella composizione delle giurie, ma anche nella selezione dei premiati: chi ha già vinto un concorso organizzato da uno di loro sarà certamente agevolato nel vincerne un secondo, grazie ad una politica protezionistica basata su favori reciproci, anche a distanza.
Con ciò non si vuole scoraggiare i giovani a partecipare ai concorsi, tutt’altro. Ma è importante vivere serenamente simili esperienze, approfittare del confronto reciproco per arricchire le proprie conoscenze, senza lasciarsi condizionare negativamente: già, perché vi sono pericolosi effetti a lungo termine che il sistema di preparazione dei concorsi può generare sui candidati.
Il rischio maggiore riguarda proprio la genuinità e la completezza della loro formazione musicale. È preoccupante la tendenza, oggi molto diffusa tra i giovani studenti (e rispettivi insegnanti), a finalizzare lo studio alla vittoria di un concorso, quasi che questo sia l’obbiettivo primario ed il fine ultimo del percorso didattico. Senza dubbio, è positivo che un concorso possa stimolare una maggiore determinazione nella preparazione, ma spesso il verdetto della competizione diventa più importante del risultato artistico, con pericolose conseguenze, sia per i vincitori che per i “perdenti”.
La vittoria di un prestigioso premio può, infatti, alimentare la convinzione di essere artisti completi, causando un calo del rendimento e della ricerca interpretativa (caso quanto mai frequente tra i primi premi dei concorsi internazionali). L’abitudine, poi, a studiare in funzione di una competizione può generare una vera e propria dipendenza: quasi che non si possa fare a meno di continue verifiche esterne per vedere confermata (o meno!) la propria adeguatezza all’esecuzione musicale. Molti vincitori non riescono a mantenere lo stesso livello qualitativo nei loro concerti perché manca lo stimolo del confronto con altri concorrenti, o con una “temibile” giuria.
L’eliminazione da un concorso può spesso determinare depressione, perdita di sicurezza nei propri mezzi, o per lo meno un naturale, ma non certo benefico, senso di frustrazione. Un concorrente eliminato rischia così di oscurare gli elementi più genuini ed originali della propria personalità artistica, considerando questi come la causa dell’insuccesso.
Cosa deve fare, dunque, un aspirante concertista per sopravvivere a tutto ciò, e per trovare una reale soddisfazione professionale ed artistica? Innanzi tutto, aprire gli occhi. I concorsi, è bene ribadirlo, sono molto utili per iniziare la carriera: vincerli è meglio, ma perderli non comporta alcuna preclusione. L’importante è avere una piena consapevolezza della propria missione, del proprio ruolo, e trovare una più alta gratificazione nel piacere stesso del far musica, nell’energia e nella poesia che in essa possiamo scoprire. Specialmente oggi il mondo musicale ha bisogno di interpreti creativi, ricchi di immaginazione, spirito di iniziativa, intraprendenza, curiosità, e soprattutto con l’urgenza di dire qualcosa di autentico, di far partecipi gli ascoltatori di una nuova scoperta, di una “verità” da diffondere con entusiasmo e sincerità. È inoltre importante non rinchiudersi, ma guardarsi intorno e cercare tutte le opportunità per farsi conoscere e apprezzare. E non si tratta solo dei concorsi: anzi, spesso un’incisione discografica riuscita o una buona audizione presso un importante direttore artistico risulta molto più proficua della vittoria di un primo premio.
Esistono, poi, molti concorsi “illuminati”, che gradualmente stanno modificando il regolamento (e le giurie) per avvicinarsi alle reali esigenze della vita concertistica. Ma ciò che più conta è che il candidato affronti il concorso con la mentalità del “concertista”: e ciò sarà più facile nel momento in cui egli saprà dire qualcosa di speciale, di unico, che lo renda distinguibile da tutti gli altri.
Roberto Prosseda