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Intervista con Alessandro Melazzini, Agosto 2008

Per il Notiziario della Banca Popolare di Sondrio – Agosto 2008

Roberto Prosseda, pianista alla fiera di Samarcanda

Roberto Prosseda da ragazzo, oltre a trascorrere le giornate sui tasti del pianoforte, ha conseguito una formazione scolastica con voti da lode. Poi ha vinto numerosi concorsi musicali, ha registrato per etichette prestigiose che lo tengono sotto contratto e, addirittura, ha scoperto dei manoscritti inediti di grandi compositori. Ora Prosseda gira il mondo ed è uno dei migliori pianisti italiani di musica classica. Ci sarebbero tutti gli ingredienti, penserà qualche lettore, perché si atteggi a primo della classe. E invece è simpatico, non sa di muffa, anzi è felicemente sposato e fresco padre di una bambina. Eppure c’è una cosa che non mi quadra del suo abbigliamento.

 

Com’è che spesso nei tuoi concerti indossi camicie di foggia orientale?

Sono molto comode. Prima di avere quelle cinesi di seta usavo le marocchine di cotone. Sono camicie comode perché consentono di muoversi agevolmente. Perché nel suonare c’è anche un aspetto atletico.

 

Ovvero? 

Un centometrista non correrebbe mai in smoking. Invece è normale che un pianista, anche quando esegue dei brani fisicamente impegnativi, in cui si muove col busto e con le braccia, debba soffrire racchiuso in un abito appartenente a un’altra epoca. Il problema è che anche noi pianisti per molte persone apparteniamo a un’altra epoca. Le camicie sono legate ai viaggi che ho fatto, in Marocco ho avuto modo di suonare due volte, poi sono stato molto in Oriente e così sono passato alle camicie cinesi, più belle, con una seta di alta qualità e confezionate su misura in sartorie artigianali. Ormai è una tradizione, ogni volta che passo da Shanghai ne compro sempre qualcuna.

 

Quanto costano?

Beh in Cina trattare è più che una tradizione: è quasi un obbligo. Se non tratti si offendono. Alla fine se sei bravo te la danno per 30-35 dollari. Poi dipende molto dalla qualità che scegli. Quelle preconfezionate con una seta di scarsa qualità vengono 7 dollari, ma sono da sconsigliare.

 

E tu noti che le camicie agiscono davvero sulla tua modalità di esecuzione durante il concerto?

Sì. Quando suoni tutto influenza, da cosa hai mangiato alla temperatura. Io ad esempio per stemperare la tensione prima di ogni concerto faccio sempre una doccia, così mi sento più rilassato. E se anche così non fosse, sono convinto di esserlo, ed è già qualcosa. Ogni volta, infatti, è una sfida contro noi stessi per rendere sempre al meglio.

 

Ma è vero che in Cina la musica classica entusiasma le folle? Perché?

Per loro è una cosa nuova. Non ha quel sentore di museo che purtroppo possiede nella nostra società, dove l’ascoltare musica classica porta con sé una serie di stereotipi: bisogna vestirsi in un certo modo, assumere un certo contegno etc. In Cina non è così. Ci sono delle stagioni in cui la musica classica è alternata ad altre sonorità, per loro altrettanto esotiche. Dal tango sudamericano alla musica sudafricana passando per la classica europea. Il motivo di una simile flessibilità è che da noi la musica classica assume un ruolo primario nella programmazione di un teatro: sarebbe impensabile fare una stagione di sola musica cinese, mentre per loro è abbastanza inusuale fare una sola stagione di musica europea. Certo non si può paragonare la popolarità che ha la musica classica in Cina con quella che (non) ha la musica cinese in Europa, tenuto conto che anch’essa ha una tradizione molto importante, certamente paragonabile alla nostra. Ma mentre noi siamo parecchio orgogliosi del nostro passato, loro soprattutto sono più interessati alle musiche che vengono da fuori che alle proprie.

 

Come mai?

Penso che sia un modo per voler superare il loro passato. Penso sia una cosa un po’ triste perché così la Cina rischia di dimenticarsi della propria cultura per adeguarsi agli standard occidentali, che non sono sempre tout court dei modelli positivi.

 

Cosa ama particolarmente del tuo repertorio il pubblico cinese?

La parte che ritengo meno interessante. I cinesi, anzi, gli organizzatori cinesi, chiedono sempre di suonare le stesse cose, ovvero le più popolari, come la sonata Chiaro di Luna di Beethoven, che per inciso lui non ha mai chiamato così, oppure i pezzi celebri di Chopin, MozartČajkovskij, Schubert, Schumann, Liszt; insomma, il primo disco di musica classica che si può trovare in un autogrill, quello è il repertorio che piace agli organizzatori di concerto cinesi. D’altronde sono brani molto belli, se escludiamo Per Elisa, che ritengo una composizione d’importanza molto relativa rispetto a quello che ha fatto Beethoven. Poi mi è capitato anche di suonare, anzi me l’hanno letteralmente imposto, dei pezzi della tradizione pianistica cinese, cosa che in realtà ho fatto molto volentieri. Si tratta di brani raccolti in un’antologia compilata da un funzionario della cultura, a metà del secolo scorso. Sono un po’ la bibbia degli studenti di musica delle innumerevoli scuole cinesi, allievi che ormai ammontano a parecchie decine di milioni. C’è chi dice arrivino addirittura a 50-60 milioni.

 

Un’Italia di soli pianisti?

Forse è una cifra esagerata, ma di certo sono a milioni. E tutti giovanissimi. Se va avanti così, e se la Cina continua a crescere economicamente come in questi anni, i cinesi diventeranno il pubblico più grande e influente del mondo.

 

Ma a parte i pezzi standard per i cinesi, il tuo nome è legato indubbiamente alla tua incisione intitolata Mendelssohn Discoveries, elogiata anche dal Wall Street Journal e che comprende musiche pianistiche mai registrate prima. Come sei riuscito a scovare degli inediti di Felix Mendelssohn?

In maniera abbastanza casuale. Ho scoperto quanto fosse avvincente ricercare composizioni perdute nel momento in cui dovevo incidere un disco…

 

Avvincente se le trovi, perché se fai cilecca…

Pensa che quando ho trovato gli inediti di Mendelssohn stavo cercando tutt’altro, una composizione che ancora adesso non ho trovato e che a questo punto spero di recuperare il più tardi possibile, visto cosa ho scoperto nel frattempo.

 

Cosa stavi cercando?

Qualcosa di apparentemente molto più facile, ovvero un’Egloga di Goffredo Petrassi, un brano pianistico di cui ci sono varie tracce e che io peraltro stavo cercando quando Petrassi era ancora vivo. Non sembrava una cosa così difficile, ma lui stesso mi disse che l’aveva persa. In realtà ho capito che non voleva venisse ritrovata, così non ho insistito oltre. In quella occasione imparai i meccanismi di catalogazione delle biblioteche e ad orientarmi nel mondo dei manoscritti musicali. Subito dopo, nel 2000, in occasione di un concerto con musiche di Salieri, colsi l’opportunità di cercare qualcosa di suo e trovai presso la Biblioteca Nazionale di Vienna una sonata inedita per pianoforte, menzionata in uno studio del suo biografo Rudolph Angermüller. Similmente è successo nel caso di Mendelssohn, quando nel 2003 la Henle Verlag di Monaco ha pubblicato il catalogo dei manoscritti di Mendelssohn conservati presso la Biblioteca Statale di Berlino (ex DDR). Ma non pensare che io sia un cane da tartufo che rovista manoscritti nelle cantine. Grazie a Internet e grazie alle riviste di musicologia spesso ho eseguito ricerche senza dovermi recare direttamente sul posto.

 

Il fatto che un compositore come Mendelssohn sia stato bandito sotto il nazismo perché ebreo ha contribuito a lasciare ineseguite molte sue partiture?

Certamente, anche se a ben cercare si potrebbero forse trovare anche inediti di altri autori più celebri come Beethoven o Schumann, naturalmente opere minori. Ma se di questi e altri musicisti dell’Ottocento ormai il corpus delle opere è stato pubblicato, per Mendelssohn il processo è ancora in fieri, poiché la catalogazione delle sue opere venne ignorata dalla musicologia della prima metà del Novecento. Il lavoro che fecero Köchel per Mozart e Otto Deutsch per Schubert, e quello compiuto per Bach e Beethoven allora non venne fatto per Mendelssohn. Ora finalmente a Lipsia è in corso la catalogazione delle opere di questo compositore, che avrebbe meritato una scoperta meno tardiva e che certo fu snobbato anche perché ebreo. Già i suoi genitori si resero conto di quanto fosse svantaggiosa la loro situazione, tanto che si convertirono al protestantesimo. Per contro Mendelssohn ebbe la fortuna di nascere benestante, e i suoi genitori diedero a lui e ai fratelli un’educazione ideale, si dice che imparò la letteratura tedesca nientemeno che tramite il vecchio Goethe, il quale pare lo abbia anche influenzato nei gusti musicali, spingendolo verso una sensibilità di tipo tradizionalista, cosa che ha attirato a Felix Mendelssohn anche varie critiche. Senza contare le faziosità razziste di Wagner, secondo cui la sua era «musica che puzza di Sinagoga». Pare invece che Mendelssohn non abbia mai visitato una sinagoga, mentre ci sono prove che Wagner abbia copiato da lui a piene mani. Prossimamente avrò modo di ritornare a parlare di Mendelssohn perché con la Deutsche Welle girerò un documentario sui numerosi luoghi da lui visitati, tra cui Lipsia, un paradiso per i musicofili perché, a pochi passi l’una dall’altra, si possono visitare la casa di Schumann, Bach e Mendelssohn. Questi era davvero un viaggiatore curioso e attento, che ci ha lasciato delle acutissime note di viaggio. Penso a quelle scritte durante il suo soggiorno in Italia. Piacerebbero anche ai lettori di guide come la Lonely Planet.

 

Tu sei un “orecchio assoluto”. A chi non mastica di musica pare un insulto, e invece è un talento. Meritato?

Intanto diciamo che io ho l’orecchio assoluto. Non so se sia meritato. È una facoltà relativamente comune tra i musicisti che consiste nel saper individuare la nota esatta corrispondente a un qualsiasi suono ascoltato. Chi ha l’orecchio assoluto molto sviluppato riesce a decifrare le note di un bicchiere che cade o del clacson di una macchina. Detto così sembra una cosa inutile, tanto per far bella figura con gli amici. In realtà, quando si ascolta una partitura orchestrale, o quando si suona insieme con altri, ciò aiuta a distinguere con maggior dettaglio tutte le note che compongono un brano. Ad esempio è utile a un direttore per rendersi conto di quando un orchestrale stona. In sostanza l’“orecchio assoluto” è la facoltà di monitorare gli accadimenti acustici.

 

Monitorare e scomporre

Esatto. E ci sono varie forme di orecchio assoluto, non sempre compresenti. Quello limitato alla comprensione dell’altezza di un singolo suono e quello in grado di decomporre un suono complesso. Poi c’è l’orecchio assoluto passivo, di chi è in grado di riconoscere le note corrispondenti a un suono ascoltato, e c’è l’orecchio assoluto attivo, quello di chi sa intonare a piacere una nota, oltre a saperla decifrare nell’ascolto.

 

Tu quale hai?

Un orecchio assoluto passivo ”polifonico”. Sento le note e nella mente mi si illuminano i corrispettivi tasti del pianoforte. Mia moglie Alessandra, anche lei pianista, possiede un orecchio attivo. Quasi tutti coloro che possiedono di tale facoltà hanno avuto un’esperienza di ascolto musicale consapevole prima dei tre anni di vita, perché in giovanissima età il cervello è in grado di memorizzare le frequenze dei suoni, associandole a un timbro.

 

Quindi con la musica hai cominciato da piccolissimo...

Sì, mio padre ha sempre avuto una grande passione per la musica e per gli strumenti, di cui possiede una collezione piuttosto ampia, che poi io ho arricchito nel corso dei miei viaggi portandogli souvenir dai luoghi esotici in cui ho suonato. Però non ha mai avuto un violoncello, il suo preferito. Quando avevo due anni pensò di mettere un puntale a un violino, insegnandomi a usarlo a mo’ di violoncello, visto che era perfettamente dimensionato alla mia piccola taglia. Quella fu la mia prima esperienza di musica consapevole. Poi in casa c’era anche un grande pianoforte verticale con molti ornamenti che a me sembrava un mobile assai imponente. Quando ebbi in regalo un kit da piccolo falegname mi misi con grande orgoglio a piallarne un angolo.

 

Chissà come sarà stato contento tuo padre…

Lasciamo perdere…ma questo per dirti che ho sempre avuto un rapporto di gioco con la musica, mai legato a un senso del dovere. I miei genitori mi hanno insegnato precocemente a leggere le note, una cosa per me naturale, ma non mi hanno mai spinto a studiare musica, sebbene abbia iniziato già verso i sei anni. Allora mi divertivo anche scrivendo delle piccole composizioni. All’inizio sembrava quasi che fossi orientato verso un’attività di composizione.

 

Poi?

Poi a tredici-quattordici anni cominciai a rendermi conto che tutto quanto avevo composto era qualcosa di preesistente. E smisi.

 

Un trauma?

Certamente una delusione. Ero abbastanza orgoglioso delle mie composizioni, perché erano spontanee, ma evidentemente si trattava di una spontaneità dovuta al fatto che avevo riciclato inconsciamente musiche già ascoltate e riscritte senza i dovuti accorgimenti per renderle personali. Nei casi migliori sembravano ricalchi stilistici di composizioni del Settecento, nei peggiori, quasi sempre, si trattava di plagi veri e propri.

 

Da quel momento quindi hai abbandonato la composizione e ti sei deciso a diventare pianista. A fare i malevoli si potrebbe obiettare che rispetto alla tua iniziale tendenza la decisione di fare “soltanto” l’interprete, ovvero una professione che non prevede una produzione diretta bensì la riproduzione di qualcosa già scritto da altri, sia un ripiego.

Beh, un mio amico ingegnere una volta mi ha chiesto a cosa serviva un direttore d’orchestra se c’è una partitura che tutti possono eseguire. In realtà la notazione scritta è volutamente molto generica, si basa su delle convenzioni e lascia un grande margine di decisione agli esecutori, che si chiamano interpreti perché non si limitano a riprodurre delle informazioni scritte da altri, come potrebbe fare un meccanismo automatico, ma devono imprimere a esso un vissuto, un coinvolgimento emotivo che non può prescindere dalle esperienze personali di chi legge e trasmette al pubblico queste musiche. È un aspetto molto stimolante, che ci fa capire come il lavoro di interprete sia anch’esso artistico e creativo. Altrimenti si potrebbe obiettare a un attore, magari interprete di Shakespeare, che il suo ruolo è quello di ripetere a memoria ciò che è stato scritto da un altro.

 

Vuoi dire che un pianista è anche un po’ un attore?

Tutta la musica ha una componente drammatica molto importante. Questo le consente di essere un veicolo di emozioni ed espressioni poetiche che vengono trasmesse al pubblico grazie anche a un atteggiamento gestuale e con meccanismi simili a quelli della recitazione. Ma c’è di più. Noi quando suoniamo dobbiamo impersonare diversi personaggi e questo non vale soltanto per le opere liriche, dove si fa teatro per definizione, ma vale anche suonando musiche per pianoforte solo o musica da camera, anche quando manca un rapporto diretto con un contesto extramusicale. Eppure, in realtà c’è sempre una traccia, un itinerario, un motivo, uno sviluppo, una tensione drammatica senza la quale la musica non sarebbe arte. E anche quando essa dichiaratamente rifiuta una certa drammaticità, in realtà non fa altro che possederla per sottrazione. Tutto ciò rende l’interpretazione stimolante, e sul palcoscenico l’interprete deve avere quelle qualità in grado di far arrivare al pubblico il messaggio che egli ha scoperto nella musica e che cerca di trasmettere e impersonare. Per questo motivo nell’esecuzione di un brano confluiscono non solo la conoscenza tecnica dei meccanismi compositivi alla base della creazione musicale e una comprensione culturale dell’ambito in cui l’opera ha preso forma e vita, ma anche le esperienze personali dell’interprete, che sono magari comuni a quelle del pubblico, rispetto a quelle di un compositore vissuto trecento anni fa. L’interprete ha un’importante funzione di tramite, di traghettatore, se vogliamo di traduttore di un messaggio che è stato ideato molti anni prima in un contesto culturale assai diverso, e che però in virtù del suo valore assoluto e al di là del tempo permane comunque attuale. Anzi, quel valore può essere reso ancora più attuale se si è in grado di ricodificarlo in maniera più comprensibile al pubblico di oggi.

 

Hai parlato di un messaggio scritto secoli fa. Però anche oggi viene composta “musica classica”, o meglio musica... 

Per convenzione si dice “musica colta”, per distinguerla dalla musica leggera, o commerciale, quella pensata non per raggiungere un alto livello artistico – sebbene alle volte possa benissimo accadere anche una cosa simile – ma per vendere dischi. A dire la verità io però sono contrario a simili distinzioni, che spesso diventano delle vere e proprie barriere ideologiche. Pensiamo infatti a Schubert, che scrisse molta musica “di consumo”: alcuni dei suoi walzer erano composti per essere danzati. L’odierna concezione della musica classica come qualcosa con un valore talmente elevato da non poter essere mescolata con altre attività durante l’ascolto si è cristallizzata. Un simile atteggiamento può valere per i grandi compositori, ma al contempo non bisogna dimenticare che molta musica classica è stata scritta non per essere eseguita in un concerto con ascoltatori in religioso silenzio, ma come musica d’uso, funzionale ad altri ascolti. Inoltre spesso i compositori sul momento non si rendevano nemmeno conto che stavano producendo un capolavoro, perché magari il loro obiettivo, come nel caso di Bach, era quello di scrivere una Cantata per la domenica successiva. O, come nel caso di tanti altri, semplicemente perché dovevano sbarcare il lunario. Ma questo non è il caso di Mendelssohn, che era ricco di suo. Oltre a ciò, alcune delle musiche che oggi vengono eseguite in forma di concerto, allora erano musiche da scena, come quelle per il Sogno di una notte di mezza estate, composte proprio da Mendelssohn.

 

Ma cosa vuol dire comporre “musica colta” nel 2008?

È una risposta che non riesco a dare in maniera facile. Ricordo un celebre aneddoto di un mio amico compositore, Carlo Boccadoro, che una volta in treno si trovò a conversare con un ragazzino che gli chiese cosa faceva lui nella vita. «Io faccio il compositore» gli rispose Boccadoro. E il ragazzino: «Davvero? E io che pensavo che i compositori fossero tutti morti». Effettivamente si fa fatica a pensare che oggi esistono compositori che operano in maniera indipendente dalle funzioni pratiche della musica, come quella da film o da documentario. Eppure esistono. Penso a Luca Lombardi, uno dei pochi compositori italiani contemporanei che riesce a vivere del suo lavoro senza essere anche docente, direttore artistico o altro, grazie alle commissioni di istituzioni, spesso straniere, spesso tedesche. Ma per rispondere alla tua domanda, secondo me essere compositori oggi significa saper mettere a frutto la propria sensibilità ed esperienza, rielaborandole per offrire un prodotto ispirato a criteri di qualità artistica e sincerità più che al desiderio di piacere facilmente al pubblico. È certamente un mestiere in controtendenza rispetto alle esigenze della società di oggi, sempre più legata alla legge del facile successo.

 

Nemmeno essere pianista è una delle cose più “trendy”. Cosa significa per te la professione che svolgi?

Una scelta di vita e un modo di vedere il mondo, la realtà, l’esistenza. Vuol dire tentare di scoprire tutta la bellezza e i mondi, spesso sorprendenti e comunque molto diversi uno dall’altro, che sono nascosti nelle partiture musicali, certamente non soltanto in quelle per pianoforte. E una volta scoperta questa bellezza e magia fare tutto il possibile per renderne partecipi gli altri, ovvero il pubblico dei concerti e di coloro che ascolteranno queste registrazioni. Ciò comprende un grande lavoro di approfondimento delle fonti, non soltanto della partitura ma anche di tutto quello che vi sta dietro, come ad esempio lo studiare gli strumenti su cui le opere vennero concepite, capire cosa noi possiamo fare per tradurre in maniera fedele ma anche compatibile con il mondo, gli strumenti, l’orecchio e il pubblico di oggi, ciò che era stato concepito con una sonorità diversa, non soltanto perché lo strumento era diverso, ma anche perché l’immaginario sonoro di allora era un altro. Oggi noi conosciamo sonorità un tempo inesistenti, come ad esempio la musica rock e quella elettronica. Tutto questo non può essere ignorato da un interprete di oggi. Egli deve far capire che una nota di Beethoven era altrettanto ricca di energia e di carica rivoluzionaria, altrettanto in grado di scioccare e incollarti alla sedia quanto potrebbe essere un pezzo di Jim Morrison o dei Pink Floyd. Questo è il ruolo che a noi pianisti spetta e che spesso tendiamo per pigrizia a dimenticare. Tutto questo poi va messo anche in relazione con le esigenze del mercato. È triste dirlo ma il nostro mestiere ha bisogno, per andare avanti, di essere espletato, ha bisogno di occasioni in cui si possa suonare e registrare dei dischi. Il mondo dell’organizzazione della musica classica è sempre più soggetto alle regole del marketing e dell’immagine, della promozione alle volte basata più sull’apparenza che sul reale interesse artistico. Bisogna cercare di difendere la qualità intrinseca della musica senza ignorare le esigenze della società moderna.

 

Per diventare pianista occorre una grande formazione, a cui tu hai già accennato per quanto riguarda l’età dell’infanzia. Tra liceo – classico, naturalmente – e conservatorio, hai avuto degli anni molto impegnati. Come trascorrevi le tue giornate da adolescente?

Ho un ricordo di giorni molto pieni, spesso eccessivamente di corsa. Dopo la mattina al liceo, il tempo di un panino per poi andare al conservatorio, dove oltre allo strumento si studiano anche materie complementari come armonia, storia della musica e, nel mio caso, composizione. Ho spesso faticato a fare tutto e purtroppo non restava molto tempo per altre attività, come lo sport che ho trascurato, e che adesso cerco di recuperare, sebbene la paternità mi conceda ancor meno tempo di prima. Ricordo giornate faticose, ma non è stato tempo sprecato. La formazione nel senso più pieno tuttavia non è solo studio, essa consiste nel viaggiare, nell’incontrare persone diverse, conoscere mondi nuovi, relazionarsi con ambienti diversi. Tutto questo influisce in maniera preponderante sulla personalità artistica, quindi sulla possibilità di comprendere opere d’arte che sono state scritte in ambienti differenti dal nostro.

 

Dopo il classico hai frequentato la prestigiosa Accademia Pianistica di Imola, studiando contemporaneamente a Roma Lettere. Musica & Letteratura, un binomio fruttuoso, Thomas Mann sarebbe orgoglioso di te.

La mia è stata una scelta abbastanza tradizionale. Un binomio comodo, perché a La Sapienza era possibile preparare gli esami senza frequentare, come accadeva a me che studiavo in treno nei viaggi tra Latina, Roma e Imola. Forse sarebbe stato più divertente fare musica e ingegneria. Ci sono molti aspetti matematici e fisici che rientrano nella composizione musicale.

 

Qual è stato il primo vero concerto con pubblico pagante che hai fatto? 

Il concerto per la premiazione del concorso Bucchi a Roma. Avevo undici anni e suonai una mia composizione intitolata Nel Bosco, una suite in cui simbolicamente descrivevo una giornata in una selva. Eravamo sei vincitori ex-aequo. Il primo concerto da solo ha avuto luogo qualche mese dopo in una sala parrocchiale romana, organizzato dalla mia insegnante al conservatorio, Anna Maria Martinelli, con cui sono ancora in contatto e che giustamente sapeva come fosse importante confrontarsi col pubblico sin da piccoli. Ricordo ancora quanto ero emozionato quel giorno.

 

Ora che hai suonato nelle sale concerto più celebri del mondo, cosa provi prima della prima nota?

Non è mai la stessa sensazione, altrimenti sarebbe più facile sapere come reagire. Suonare davanti a un pubblico è molto diverso che suonare da soli a casa propria o in un’aula in cui si studia. E lo dico in senso positivo, perché gli ascoltatori di solito riescono a tirar fuori dall’artista un lato che altrimenti rimarrebbe inespresso. Penso che valga per tutte le professioni in cui è prevista una prestazione di fronte a un pubblico. Vale per i musicisti, vale per gli attori, penso valga anche per i calciatori. Naturalmente se è una sala importante o c’è anche una diretta radiotelevisiva il carico di stress è maggiore e allora l’obiettivo è cercare di convertire la forte carica emotiva in energia positiva, senza farla diventare panico, rendendosi conto che c’è un pubblico venuto per sentirci, un pubblico che come noi apprezza la musica e vuole momenti di particolare profondità. È un discorso che mi ripeto ogni volta prima di un concerto, ovviamente non basta a eliminare la tensione o la paura di non essere al meglio, di non piacere a tutti, ma trovo che sia importante instaurare un rapporto personale e diretto con il pubblico. Spesso, e non sono certamente il primo a dirlo, mi piace individuare un volto particolare tra il pubblico, una persona su cui mi cala lo sguardo e che mi osserva con attenzione. È a questa persona in particolare che idealmente mi rivolgo durante l’esecuzione.

 

Ti è mai capitato che quella persona si sia accorta della tua attenzione?

No, non potrebbe. Non è che mentre suono la fisso! Talvolta penso a qualcuno che mi è caro e che credo sia presente al concerto, poi scopro che non c’era. Ciò che è importante è la voglia di comunicare all’esterno in maniera naturale, profonda, spontanea, non esibizionistica o superficialmente spettacolare. Il concerto non è uno show che serve a far divertire o distrarre la gente, ma qualcosa di meglio. È un’esperienza, un viaggio interiore in cui, se tutto va bene, chi è sul palco riesce a condurre chi del pubblico ha voglia di seguirlo. Questo può accadere o meno, con una, dieci o cento persone, in base a tanti fattori controllabili o meno. Uno di questi è l’affinità che si può creare con il pubblico: se esso è molto rumoroso un pianista può pensare che è colpa sua, perché non riesce a catalizzare l’attenzione, e così si innesca un meccanismo di sfiducia reciproca che non porta da nessuna parte, e il rischio è di suonare con il pilota automatico, senza sforzarsi di comunicare al meglio possibile l’arte che è dentro la musica. Se invece si creano immediatamente un particolare silenzio e una tensione positiva, e questa alchimia è avvertita dall’artista, tutto funziona meglio e io stesso magari scopro degli aspetti musicali della mia interpretazione che non erano mai venuti prima alla luce. Comunque ogni concerto è diverso dall’altro.

 

Perché?

Il rendimento dipende dallo stato d’animo, dalla forma fisica, da tanti fattori del tutto inimmaginabili. Fare un concerto presuppone una serie di abilità su terreni molto diversi. Intanto non va sottovalutato il lato puramente fisico, ovvero il rendimento psicomotorio. Fare un concerto significa anche essere in grado per due ore di avere un totale controllo del nostro corpo, in particolare delle mani, ma anche dei piedi, perché i pedali sono un aspetto fondamentale dell’esecuzione pianistica. Questo aspetto deve essere messo in relazione con l’efficacia della meccanica del pianoforte, perché i gesti muscolari del pianista che confluiscono nella punta delle dita non sono altro che l’inizio di una trasmissione di informazioni musicali e poetiche, non soltanto sonore, che poi si palesano nella vibrazione delle corde del pianoforte. È un’intenzione che prima di arrivare a esse deve passare dall’infinità di leve meccaniche che trasmettono il movimento del tasto premuto. In generale poi la musica è fatta dalla compartecipazione di una grande quantità di elementi. Ci sono delle linee melodiche che coesistono pur mantenendo ciascuna una propria indipendenza. Esiste una consapevolezza della forma musicale che deve consentire, al di là dei piccoli dettagli, di mantenere una tensione che perduri per dieci o venti minuti. Questo processo non richiede soltanto una grande efficienza fisica, ma anche profonda concentrazione, che tuttavia non deve limitare la libertà di lasciarsi andare all’ispirazione. Ma rimanendo anche solo a osservare la meccanica, si potrebbe fare un paragone con la Formula 1. Un pianoforte perfettamente accordato richiede infatti da parte dei tecnici e degli intonatori un lavoro maniacale che può durare dei giorni interi e che può essere rovinato da un semplice sbalzo termico di umidità. Senza contare che ogni pianista ha particolari esigenze riguardo all’accordatura e alla regolazione del pianoforte in rapporto a un determinato repertorio, e a una determinata sala. Perché anche l’acustica è fondamentale. E non soltanto nella platea, ma anche sul palco: la risposta che io ho quando suono deve essere abbastanza simile a quella che arriva in platea. Ma alcune sale determinano un tempo diverso in platea rispetto a quello sul palco, e perciò bisogna compensare la velocità con cui si eseguono i propri passaggi in base alla risposta con cui essi vengono percepiti in sala, suonando eventualmente in maniera più forte, o più scandita, o più morbida, altrimenti tutto è vanificato e l’ascoltatore percepisce il contrario di quello che vogliamo, o solo una piccola parte del messaggio complesso che si vuole fargli arrivare. Detto questo, ogni concerto ha sempre una componente aleatoria, che a me non dispiace. Fino a quando non ho concluso l’ultima nota, non so mai come andrà il concerto. Può anche succedere che abbia tutte le condizioni perché tutto vada bene, eppure ciò non succede. Oppure il contrario.

 

Come quella volta in Uzbekistan?

Proprio così. Ero a Samarcanda, in un teatro molto sfarzoso, dove però c’era solo un vecchio pianoforte tedesco lasciato dai tempi in cui la Germania Est era parte dell’impero sovietico. Lo strumento su cui dovevo suonare versava in un tale stato di trascuratezza che gli mancavano anche i pedali. Chiesi aiuto al custode del teatro e lui mi suggerì di cercarli dandomi un’occhiata in giro. Li trovai e li attaccai con lo scotch, poi quando chiesi se c’era un accordatore mi disse che non sapeva nemmeno cosa fosse, perché lì era normale che i pianisti si accordassero da soli il pianoforte. Una cosa impensabile per chi è abituato a uno standard europeo. Io mi adattai, ma mentre suonavo lo scotch cedette e dovetti proseguire senza pedale, quindi con una sonorità molto secca, e tutt’altro che adeguata, trattandosi di un pezzo di Chopin. Prima dell’inizio, alla mia lamentela che il pianoforte era completamente scordato e lontano dalle mie esigenze, il custode mi rispose: «si beva un po’ di vodka uzbeka, così se il pianoforte non si accorda con le sue esigenze, almeno lei si avvicinerà a quelle del pianoforte». Una filosofia che ha la sua utilità. Quello che imparai a Samarcanda è che l’importante consiste nel messaggio trasmesso. Non bisogna preoccuparsi solo della perfezione dello strumento e dell’acustica. A Samarcanda il pubblico era del tutto ignaro di cosa fosse un concerto di musica classica. Sembrava una fiera, passava la gente con i popcorn, c’era un costante fruscio di fondo. Eppure ci furono una risposta e un entusiasmo straordinari, che annovero tuttora tra i miei ricordi più belli.

 

Quando non sei impegnato a girare il mondo, come si svolge la tua vita quotidiana? 

Per fortuna non c’è una routine, anche se ora cerco di limitare i viaggi inutili per stare di più con la famiglia, oppure portare direttamente la famiglia in viaggio. D’altronde mia moglie Alessandra, che debutterà a Vienna e Salisburgo il prossimo anno, e nostra figlia Miriam finora mi hanno seguito senza problemi. A soli tre mesi Miriam ha già avuto la fortuna di occupare il camerino di von Karajan, quando, lo scorso novembre, ho suonato assieme con Alessandra alla Philharmonie di Berlino. È molto bello godere della vicinanza dei propri familiari anche quando si è in viaggio, soprattutto visto che io spesso giro il mondo da solo. Quando sono a casa invece, mio malgrado, mi trovo spesso a sbrigare faccende che non hanno nulla a che vedere con la mia professione.

 

Se tua moglie non fosse stata pianista, ti saresti innamorato lo stesso di lei?

Non lo so. L’ho conosciuta all’Accademia di Imola, notandola mentre suonava. In queste occasioni, se si suona in maniera sincera e spontanea, ci si mette a nudo, mostrandosi a chi ha la sensibilità e la voglia di capire. Accadde proprio questo a me, mentre Alessandra era intenta a suonare un Intermezzo di Brahms. Fu una vera illuminazione, e scoprii dei lati della sua personalità che non avevo notato prima. In tutto ciò la musica ha giocato un ruolo fondamentale. Sì, forse si può parlare di affinità elettive. Grazie alla musica si può capire come non si è soli ad avere scoperto un certo tipo di bellezza, sempre grazie alla musica si può scoprire la bellezza di un animo e la scoperta poi può diventare amore, come è stato nel mio caso.

 

Ora come vivete la vostra passione comune? In concorrenza o in collaborazione?

È molto bello poter condividere una grande parte della nostra ricerca. Non riesco a immaginare come ciò mi potrebbe accadere se avessi sposato una persona che non ha una sensibilità ed esperienza comuni alle mie. È certamente un grande vantaggio, tanto più che fare lo stesso mestiere, almeno finora, non si è tramutato in rapporto competitivo in senso negativo. C’è un frequentissimo confronto, ma questo vuol dire imparare l’uno dall’altra e viceversa. Ormai sono tanti anni che non prendo più lezioni da un insegnante: da quando siamo sposati e condividiamo molti più momenti della giornata, confrontandoci su scelte tecniche e musicali, abbiamo imparato moltissimo reciprocamente. Sempre di più curiamo la preparazione di un repertorio per due pianoforti o per un pianoforte a quattro mani. Anche questo è un modo di crescere ed accettare la diversità di una persona, che può diventare un valore aggiunto per interpretare un’opera in maniera ancora più completa e profonda rispetto a quello che potrebbe essere se avessi come partner di un duetto un mio clone.

 

In questo momento stiamo parlando con una telefonata via Internet. Quanto conta la tecnologia nella tua professione?

La tecnologia mi ha sempre appassionato. Il computer è un oggetto con cui convivo varie ore al giorno, come adesso mentre parlo via Skype. Anche il mio lavoro di ricerca musicale si svolge attraverso l’elaboratore, utilizzo dei programmi di videoscrittura musicale e sono un appassionato di sistemi di alta fedeltà. Poi tutta la corrispondenza, la redazione di articoli che scrivo per riviste, ma anche la ricerca di informazioni su Internet e l’ascolto di musica avviene tramite computer. Trovo che Internet sia una grande risorsa che ci consente di raggiungere una quantità di informazioni impensabili fino a pochi anni fa. Poi c’è il rischio di perdersi, ma è un rischio che dipende da noi.

 

Internet ti permette anche di entrare in contatto con artisti di tutto il mondo.

Assolutamente sì. Molte delle cose che faccio non le potrei compiere senza quei contatti internazionali che mi sono stati resi possibili attraverso Internet. Quando esisteva soltanto la telescrivente non mi sarei mai sognato di mandare un fax a un musicologo americano che non conoscevo. Oggi tramite e-mail è più semplice e meno invasivo.

 

Un esempio concreto di un contatto nato tramite Internet?

Per andare a ritroso, nel 1997, il primo anno che navigavo, misi un annuncio su di un forum americano per compositori scrivendo «pianista italiano è interessato a conoscere nuove musiche per pianoforte». Pensavo fosse un messaggio in bottiglia, e invece per più di un anno ricevetti ogni giorno pacchi di manoscritti di tutti i tipi. Alla fine volevo toglierlo perché io e il mio postino non ne potevamo più. Con uno dei pochi italiani che mi scrisse, Massimo Lauricella, è nata una vera amicizia. Ha scritto un concerto per me che spero prima o poi di eseguire, io ho inciso un suo brano che s’intitola Nuances. Un altro è Michael Williams, un compositore di Los Angeles con cui anni fa registrai un disco di sue musiche. Un musicologo americano, Stuart Isacoff, mi contattò tramite Internet andando sul mio sito (www.robertoprosseda.com) dopo aver letto delle mie scoperte mendelssohniane. Ha scritto le note di copertina del mio ultimo disco. Sui forum musicali c’è una comunità di ascoltatori attenti a cui non sfugge nulla, questo è un giusto contraltare alla critica ufficiale, ahimè sempre più assente a causa del ristretto spazio concesso dai quotidiani alle recensioni musicali. Spesso i forum su Internet sono una fonte importante di conoscenza e aggiornamento, complementare naturalmente alla lettura delle riviste di musicologia.

 

E quanto importa la tecnologia applicata agli strumenti musicali che usi?

I migliori pianoforti sono quelli costruiti artigianalmente. Da italiano sono orgoglioso dell’esistenza di due costruttori tra i migliori in assoluto nel mondo, Fazioli e Borgato. Quest’ultimo è un singolo artigiano con una propria bottega che costruisce pianoforti a coda con la moglie. Ne fa uno solo alla volta, indipendentemente da qualsiasi aiuto tecnologico. Detto questo, oggi le ditte musicali fanno grande uso della grafica computerizzata e dei simulatori acustici per i nuovi progetti. Procedimenti utili per economizzare la produzione industriale. Ma ad alti livelli l’esperienza umana di un artigiano rimane la scelta migliore. Molto frequenti sono invece le interazioni tra pianoforte ed elettroacustica: ho avuto contatti con un ingegnere belga che ha costruito una sorta di pianista-robot in grado di controllare tutti i tasti del pianoforte con una dinamica precisissima e una perfetta sincronia, arrivando così a eseguire composizioni impossibili per un pianista umano. Insomma, ci sono una serie di applicazioni creative legate all’elettronica e alla musica che in futuro avranno sempre più importanza, anche se hanno ben poco a che fare con il mio attuale repertorio.

 

D’altra parte anche tu fai sperimentazioni, come un progetto multimediale dedicato ai paesaggi e suoni del Kenya.

Trovo che sia molto stimolante non occuparsi solo di musiche scritte tanti anni fa. E tra l’altro, come hai intuito, ho sempre avuto la voglia di creare e comporre nonostante il mio trauma giovanile. Il progetto del Kenya nasce dall’aver frequentato quella terra con un mio collega, Fabrizio Meloni, primo clarinetto alla Scala di Milano, ospiti di una fondazione artistica, la Gallmann Memorial Foundation, nella zona della Great Rift Valley, una vallata mozzafiato in cui alla mattina vedevamo gli elefanti abbeverarsi. Quell’esperienza ha dato vita a una composizione collettiva, parzialmente improvvisata, poi fissata e registrata dopo aver riportato su pentagramma il canto degli uccelli, come già in passato aveva fatto il grande compositore francese Olivier Messiaen. Le mie suggestioni acustiche e visive sono state ricreate musicalmente in studio, integrate con quelle di Fabrizio e infine abbinate alle immagini scattate da un fotografo che ci ha accompagnato in Africa. Abbiamo in progetto di portare in tournée questa nostra creazione tra le varie nazioni della Rift Valley, che peraltro viene ritenuta la culla dell’umanità. Laggiù forse è nata la specie umana. Questo mi affascina molto e, come tutte le cose diverse dal mio repertorio, crea benefici effetti su di esso.

 

Oltre a suonare nei vari continenti ti sei cimentato anche con l’organizzazione di concerti in Italia.

Sì, in particolare nella mia città natale, Latina, dove esiste da più di quarant’anni una gloriosissima associazione musicale: il Campus Internazionale di Musica, che organizza il Festival Pontino. Qui da adolescente ho avuto la prima occasione di conoscere grandi musicisti, poi diventati miei insegnanti, come Charles Rosen e Boris Petrushansky. È un’istituzione a cui sono molto legato e a cui negli ultimi anni ho dato il mio contributo attivo come direttore artistico. L’anno prossimo curerò l’edizione estiva, incentrata sul mito di Ulisse, un mito particolarmente legato a questa terra, al promontorio del Circeo, una storia che permette di indagare la figura del pioniere, quale era Ulisse. Perché in musica ci sono molti pionieri e molti atteggiamenti pionieristici. Ma Ulisse era anche uno scopritore e un viaggiatore, come lo sono stati Mendelssohn e Mozart, ed era anche un avventuriero. E molti compositori sono stati avventurieri, in musica. Quello di Ulisse è un mito che può evocare molti stimoli e parallelismi con la musica. E i luoghi della provincia pontina dove si svolgerà il Festival sono molto affascinanti, penso al castello duecentesco di Sermoneta o all’abbazia di Fossanova, dove San Tommaso d’Aquino trascorse i suoi ultimi giorni. Luoghi con una storia secolare che si prestano bene a ospitare eventi di grande livello culturale, anche perché c’è un pubblico molto affezionato. Ma come per tutti i festival in Italia, anche il Pontino subisce sempre più i tagli dei finanziamenti pubblici. E tagliare sulla cultura penso sia un’idea né vincente né lungimirante. Se da piccolo non avessi subito i positivi stimoli musicali del Festival Pontino, forse ora farei un altro mestiere. Mi rimane da sperare, come avviene negli Stati Uniti, in Germania, Spagna e Francia, nell’iniziativa di sponsorizzazioni private. Purtroppo in Italia molte aziende preferiscono sponsorizzare una squadra di calcio o puntare su eventi di impatto più facile.

 

Quali sono le ragioni per le quali in Italia la musica impegnata sembra rimanere relegata a un ruolo marginale, a differenza di quanto avviene in altri Paesi?

Indubbiamente un aspetto è quello del nostro sistema fiscale che non incoraggia il mecenatismo delle arti. Un altro aspetto è legato alla formazione scolastica. Nelle scuole non viene insegnata la musica, o viene insegnata in maniera fuorviante, ad esempio limitandola al flauto di plastica, che nella musica classica non esiste, perché è uno strumento inventato dalla didattica. La mancata formazione musicale non comporta solo che i musicisti classici italiani, per avere successo, devono suonare all’estero, ma è una vera minaccia per la nostra cultura nazionale. Se non ce ne rendiamo conto, tra dieci o vent’anni potrebbe essere troppo tardi. Poi è compito delle persone che lavorano nella musica fare in modo che la cultura arrivi al pubblico senza ostacoli: spesso è colpa nostra se non siamo abbastanza attenti all’aspetto comunicativo, che vuol dire ad esempio evitare di far credere che la musica classica sia qualcosa di limitato agli addetti ai lavori o che vi siano degli atteggiamenti di snobismo nei confronti di chi non l’ha studiata. Al contrario, essa è una delle più democratiche e universali fonti di espressione. Non mi stancherò mai di ripeterlo, la nostra missione è quella di rendere comprensibile a tutti la bellezza dell’arte, quindi della vita. In particolare a chi non ha avuto la fortuna, o i mezzi, per rendersene conto.

 

Ritieni che la tua prossima collaborazione alla Scala con Elio – quello delle Storie Tese – sia un contributo, tra il colto e il surreale, alla diffusione della musica?

Lo spero. Con Elio ci siamo conosciuti grazie a un comune amico, il compositore Luca Lombardi, a mio parere uno dei più interessanti compositori viventi, non solo italiani. Elio si è diplomato al conservatorio di Milano e non ha mai trascurato l’aspetto “colto” della musica, ma è indubbio che ha un’altra concezione della musica rispetto a me e ha anche fatto una carriera (molto diversa dalla mia), che gli ha consentito di ottenere una grande popolarità e di sviluppare un’arte della comunicazione e un tipo di carisma che penso possano in parte servire da modello anche a chi fa musiche diverse. Nei suoi concerti c’è un modo di porgersi verso il pubblico che a volte manca in quelli di musica classica e da cui si può comunque imparare. Inoltre Elio è una persona molto colta, impegnata in progetti anche non commerciali. Nella sua posizione un altro artista avrebbe potuto scegliere di continuare per la sua strada, invece lui cerca di sfruttare la sua meritatissima popolarità anche per proporre discorsi culturalmente più articolati, contando sulla fiducia di un suo pubblico disposto a seguirlo anche in sconfinamenti anomali rispetto all’immagine che esso ha di lui. Per questo motivo alla Scala il 12 gennaio 2009 eseguiremo con lui musiche di Messiaen scritte in un campo di concentramento. Una grande musica che va al di là di ogni barriera stilistica e che si presta a lanciare un messaggio contro qualsiasi tipo di persecuzione. Elio leggerà dei testi scritti per l’occasione da Luciano Violante, il quale ha abbandonato la carriera politica e si dedica soltanto alla sua attività parallela, quella poetica. Questi testi saranno abbinati a musiche di Luca Lombardi composte per l’occasione, ed Elio farà da catalizzatore alle nostre intenzioni artistiche.

 

Cosa ascolti quando non è musica classica?

Un po’ di tutto, anche se a volte casualmente. Sento prevalentemente Radio3 e Radio24, per il resto mi piace molto il Jazz di Michel Petrucciani o, meglio ancora, quello di Bill Evans. Qualcosa dei Pink Floyd, ho avuto delle passioni tramontate come Battisti e Baglioni, ma parliamo di tempi adolescenziali, anche se ogni tanto non disdegno quel tipo di ascolto. Purtroppo non ho il tempo per ascoltare tutto quello che vorrei.

 

Per contro cosa diresti a un ragazzo che ascolta prevalentemente MTV e Radio Deejay per indurlo a scoprire la musica classica, la tua musica?

Intanto non voglio costringere nessuno. Se deve essere una scoperta, bisogna farla da solo. Quello su cui tutti dovremmo riflettere è che comunque oggi grazie a Internet abbiamo la possibilità di accedere a una grande quantità di informazioni molto diverse tra loro. Dovremmo approfittare di questa possibilità, senza fidarci troppo delle stesse fonti. Avendo visto certe situazioni dall’interno posso affermare che una cosa è quanto un certo tipo di strategia commerciale vuole propinarci, altro il valore reale di una composizione. In questo, come nella politica, è bene aprire gli occhi e non fidarsi di un solo mezzo di informazione. Leggere più giornali, documentarsi il meglio possibile su tutto quello che ci riguarda, sia l’alimentazione, la giustizia o l’offerta musicale. Siamo un pubblico che viene considerato come di soli consumatori: non dobbiamo farci sfruttare soltanto per abboccare a tutto ciò che la pubblicità ci vuole propinare. Le mode sono legate a una complessa strategia commerciale che fa capo agli interessi economici di alcuni. È bene usare Internet, aprire gli occhi e le orecchie, farci una nostra idea, sebbene nessuno di noi potrà mai essere obiettivo su tutto.

 

Un giusto discorso. Ma se avessi parlato in questo modo a un ragazzo di quindici anni…

Probabilmente mi avrebbe guardato come un alieno. Hai ragione. Dunque….intanto gli chiederei: «perché ti piace questa musica?». Lui probabilmente mi risponderebbe che gli dà energia, vitalità, voglia di rompere con gli schemi. E questo, ne sono certo, vale in misura anche maggiore per la musica di Beethoven o di Chopin. E allora gli farei capire che tutto quello che trova di bello nella musica che ascolta lo può trovare anche in un altro tipo di linguaggio musicale che grandissimi geni hanno scritto anche per lui. Poi se avesse un iPod, gli manderei dei brani che ritengo indicativi di quanto ho detto.

 

Classica o moderna, liscia o gassata. Ma sempre impalpabile. Roberto, ma cos’è alla fine quella cosa che noi chiamiamo musica?

È la domanda che spero nessuno mai mi faccia.

 

Te l’ho fatta.

Potrei rispondere con una serie di citazioni…

 

Rispondi con una citazione tua

Non vorrei dire cose a effetto.

 

Guarda che non andiamo via senza che tu mi abbia detto cosa è o cosa non è, per te, la musica…

È la vita. L’esistenza. Ma anche uno scrigno che racchiude una serie di sorprese e di mondi che certamente sono uno dei motivi più nobili per esistere.

 

Alessandro Melazzini (alessandro@melazzini.com)