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Interviste
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Maestro, quanto è urgente a suo dire, nel panorama odierno, parlare di musica al pubblico?
È oggi molto importante recuperare un rapporto diretto tra artisti e pubblico, specialmente nell’ambito della musica classica. La stragrande maggioranza delle persone non hanno mai ascoltato un concerto di musica classica dal vivo, e anche chi frequenta le sale da concerto spesso non ha gli strumenti per comprendere appieno il significato e il valore delle musiche che ascolta. Sta, quindi, anche a noi musicisti cercare di facilitare la comprensione della musica da parte del pubblico.
Dove individua la chiave di questo ‘colloquio’ con gli ascoltatori, nell’oggettività del dato musicologico o nella sollecitazione dell’ampio reticolo di suggestioni – dell’immaginario o del desiderio, fantastiche, emotive – che la musica può offrire? Preparare al concerto, cioè, vuol dire per lei mettere l’ascoltatore in grado di accogliere la musica in un contesto storico-estetico definito o guidarlo nella ricezione sensoriale?
Sono importanti entrambi gli elementi: occorre avere una consapevolezza del testo musicale di partenza, pur considerando che il testo in sé non è sufficiente a rivelare la grande varietà di suggestioni emotive che la musica evoca. Viceversa, abbandonarsi esclusivamente alle sensazioni indotte dall’ascolto musicale può essere fuorviante, quando manca una idea chiara dei “codici linguistici” che quella musica usa, e del contesto storico e culturale in cui essa è stata concepita. Nelle mie personali esperienze di “guida all’ascolto” cerco di parlare soprattutto di stati d’animo, condividendo con l’ascoltatore la mia personale visione di un brano, che quindi si basa sulle mie conoscenze storico-estetiche e sulla mia lettura del testo. Si tratta, ovviamente, sempre di un approccio soggettivo, ma del resto “l’oggettività” assoluta in musica non esiste, nel momento in cui l’interprete si frappone tra il compositore e l’ascoltatore.
In entrambi i casi, quanto influisce questo approccio sull’esecutore e sull’esecuzione? Cambia l’approccio esecutivo nel caso la ‘guida all’ascolto dal vivo’ (chiamiamola così) sia presente o meno nell’ambito del contesto dell’esibizione? Il rito del concerto ne esce snaturato? Se sì, secondo lei, questo è un bene o un male?
Nei casi in cui presento verbalmente un mio concerto, separo sempre la parte parlata da quella suonata. Si tratta, infatti, di due ruoli diversi, e prima di iniziare un’esecuzione al pianoforte è importante partire dal silenzio, e dall’ascolto del silenzio. Per contro, in base alla mia esperienza trovo molto utile aprire un canale di comunicazione verbale tra me e il pubblico prima di iniziare un concerto, in quanto ciò mi aiuta a istaurare un rapporto diretto (quasi “di fiducia”) con chi mi ascolta; e forse anche al pubblico piace poter conoscere il pianista che sta per ascoltare, anche attraverso la sua voce e il suo modo di rivolgersi alla platea. La parola chiave per la musica dal vivo secondo me è “condivisione”. E la condivisione avviene anche mettendo in comune con il pubblico il nostro modo di intendere e sentire la musica, e, perché no, anche i nostri dubbi e le incertezze del nostro percorso interpretativo.
Si stanno creando, secondo lei, nuove forme di far musica dal vivo?
Certamente. Oggi la fruizione della musica è molto cambiata, anche grazie alle tecnologie di streaming e ai social media. Anche il concetto stesso di “musica dal vivo” è molto più sfuggente, e spesso si parla di “live” anche nel caso in cui si ascolta musica attraverso il computer o su un grande schermo nelle piazze. Non so se questo sia un fatto positivo o negativo. Sicuramente l’esperienza di ascolto dal vivo, ossia quella in cui si è fisicamente presenti nella sala da concerto assieme ai musicisti che stanno suonando, è insostituibile e rimane la forma più intensa e completa di ascolto. Il format del recital pianistico è relativamente giovane, essendo stato inventato da Franz Liszt. Funziona ancora molto bene per il pubblico che già è abituato ad ascoltare un’ora di musica dal vivo, e che magari conosce e ama quel repertorio. Ma credo che sia difficile catturare l’interesse e l’attenzione di un ascoltatore nuovo se lo catapultiamo in una sala da concerto per un’ora, senza alcuna preparazione.
Per questo vedo positivamente la diffusione di altri format dal vivo, in cui la musica sia alternata alla lettura di testi (ho fatto delle belle esperienze in tal senso, con Toni Servillo e Nicola Muschitiello), o in cui si usino le tecnologie multimediali per rendere il concerto più attraente anche dal punto di vista visivo. Spesso, peraltro, nei concerti classici si trascura completamente l’illuminazione del palco e della sala, mentre anche la luce influenza profondamente la percezione della musica.
Recentemente ho fatto precedere un recital chopiniano da una breve “intervista Skype a Chopin”, usando un proiettore in cui veniva proiettata una animazione parlante del compositore polacco, già usata nel mio documentario su Chopin che ho realizzato con Angelo Bozzolini per la RAI. È stata un’esperienza interessante, che ha consentito al pubblico di avvicinarsi a Chopin apprendendo dalle sue stesse parole (l’intervista era basata sulle sue lettere) alcuni elementi basilari della sua esistenza e della sua poetica.
Lei, che oltre all’autorità come esecutore ha ottenuto e ottiene sempre più grandi successi come divulgatore (pensiamo tanto all’universo della scrittura, che la vede sfoggiare doti rare, quanto ad iniziative come le lezioni di musica con TeoTronico), ha individuato nel tempo quali siano le strategie migliori per raggiungere il pubblico nell’ambito dell’esecuzione dal vivo?
La strategia migliore è quella della sincerità e della semplicità. Oggi spesso i professionisti della divulgazione musicologica italiana tendono a parlare o scrivere in modo complesso, mentre la musica integra complessità e semplicità, così come accade nella natura e nei sentimenti. L’uso delle parole, quindi, non dovrebbe mai limitare la capacità che la musica di parlare al cuore delle persone. Per questo, nelle “lezioni di musica” che realizzo per Radio3, quando parlo di stati d’animo, più che descriverli a parole li faccio ascoltare al pianoforte.
Il format con il robot pianista TeoTronico si basa sullo stesso principio. Si tratta, in fondo, di una conferenza-concerto sui principi dell’espressione musicale, e introduce i concetti di fraseggio, direzione, tensione armonica, tensione intervallare, ma in modo non cattedratico, bensì attraverso l’ascolto comparato di due approcci del tutto opposti. Le parti parlate, necessarie per illustrare i concetti, sono affidati a dialoghi tra me e il robot, rendendo l’ascolto molto più vario e divertente, ma senza banalizzare la complessità dei concetti che vengono esposti.
Come cambia l’approccio divulgativo nel caso ci si trovi di fronte a pubblici diversi, soprattutto per età?
È fondamentale tenere presente chi ci sta ascoltando o leggendo: naturalmente il ritmo espositivo, la scelta del lessico e la durata degli interventi parlati e suonati va calibrata in base alla capacità di comprensione e alla disposizione di ascolto del pubblico che abbiamo di fronte. Nel caso di bambini, trovo molto stimolante farli partecipi dell’ascolto anche chiedendo il loro intervento, ad esempio facendo domande o rispondendo con l’applauso ad esecuzioni diverse, come accade nel format di educazione all’ascolto che porto nelle scuole assieme a TeoTronico.
Ma anche nel caso di un pubblico adulto, credo che la schiettezza e la naturalezza dell’espressione siano sempre carte vincenti. I grandi intellettuali e divulgatori non si nascondono mai dietro una prosa inutilmente complessa. In questo senso, i miei studi con Charles Rosen sono stati di grande insegnamento. E i grandi esempi di divulgazione musicale offerti da Leonard Bernstein, Antonio Pappano e Daniel Barenboim dimostrano come la musica si possa spiegare in modo diretto e naturale, pur senza svilirne la complessità.
Ha registrato un cambiamento radicale nell’approccio all’ascolto tanto delle parole sulla musica, quanto della musica con la diffusione sempre più capillare delle tecnologie e delle dinamiche comunicative dei social-network? Le è mai capitato di captare che il pubblico avesse una curiosità di scoprire svincolata però dal desiderio di ‘ascoltare’, rischio della comunicazione ipertrofica e frammentaria tipica del mondo dei social? L’attenzione duratura all’ascolto, tipica della fruizione della musica cosiddetta ‘colta’, viene, secondo lei, favorita o inibita da questi approcci illustrativi del fenomeno musicale?
Sicuramente la sempre più diffusa interazione con internet e con i social network, che a volte sfocia in una vera e propria dipendenza, sta mutando la capacità di ascolto del pubblico, anche se non necessariamente riducendola. Da un lato, infatti, siamo molto più esposti a stimoli esterni, e spesso questi sono occasione di nuove scoperte artistiche e di nuove connessioni.
D’altro canto, però, prevale spesso un’attenzione di tipo superficiale e di durata molto limitata: ci si abitua a fare “zapping” tra video di Youtube o post di Facebook, e si perde l’abilità di tenere la concentrazione su un singolo messaggio, una singola fonte sonora, per più di qualche minuto. Questo è secondo me un fatto preoccupante, e proprio il concerto tradizionale di musica classica è un ottimo “antidoto”: si tratta, infatti, di una delle poche occasioni che oggi abbiamo di “ascoltare il silenzio” e di degustare le più sottili differenze sonore, in un arco di tempo esteso, nel quale possiamo permetterci il lusso (perché di un vero “lusso” oggi si tratta) di tenere il cellulare spento e di essere protetti dal bombardamento di messaggi e stimoli esterni che spesso limita la nostra capacità di ascoltare e metabolizzare il bello. A ben vedere, oggi il silenzio e la possibilità di concentrarsi sull’ascolto è uno dei lussi maggiori, e ciò è confermato dal fatto che negli aeroporti i soli luoghi silenziosi siano le VIP lounges.
Una domanda provocatoria. La musica sa ancora parlare da sola?
Certo, la musica ha sempre parlato da sola e sempre lo farà. Ma è importante che ci sia ancora qualcuno in grado di saperla ascoltare e capire. Questa è anche la missione di noi musicisti, altrimenti non avremo più un pubblico per cui suonare. Dobbiamo imparare ed insegnare ad ascoltare. Ascoltare significa anche essere consapevoli dei nostri sentimenti, saperli condividerli e riconoscerli con gli altri. La musica, in tal senso, è un fattore primario per il nostro benessere, al di là del suo valore culturale: è una via per vivere meglio. Recentemente dopo un mio concerto una signora mi ha detto: “Un suo concerto è meglio di una cura ricostituente”: è stato per me uno dei più belli complimenti che potevo ricevere.