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Interviste
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Roberto Prosseda, note imparate a leggere a tre anni, ancor prima delle lettere. Pianista eclettico e sapido saggista, abbastanza coraggioso da impegnarsi nello studio del Pedal Piano, cosa assai diversa dal "comune" pianoforte, per fornirci, tra l'altro, delle bellissime interpretazioni del temibile Charles-Valentin Alkan. I fan si chiederanno come e perché abbia deciso di consegnare alla storia l'integrale delle Sonate per pianoforte di Mozart, compositore prediletto insieme a Mendelssohn...
Ho sempre suonato Mozart, ben prima di Mendelssohn! Passare a incidere Mozart, dopo Mendelssohn, è stato per me molto naturale: i due compositori hanno tanto in comune, a partire dalla trasparenza della loro scrittura pianistica, che richiede una particolare attenzione alla chiarezza dell'articolazione e all'equilibrio delle varie linee melodiche. Il lirismo è un'altra caratteristica comune ai due autori, come anche la naturalezza dell'espressione: più si è spontanei, più si lascia “parlare” la musica, più il risultato artistico è soddisfacente. Detto ciò, anche l'esperienza con il Pedal Piano e con i difficili brani di Alkan mi ha aiutato a sviluppare una sensibilità polifonica e un'attenzione al controllo dei dettagli che certamente mi sono stati di grande utilità anche nella lettura delle Sonate di Mozart. Non a caso, proprio Mozart fu uno dei primi entusiasti promotori del Pedal Piano, e commissionò ad Anton Walter un Pedal Piano che suonò spesso anche in pubblico.
Verso il 1760 s'inizia a disporre del pianoforte a martelli come alternativa al clavicembalo. Vent'anni più tardi la situazione si rovescia con la scelta fra pianoforte (allora fortepiano) o clavicembalo, passato in second'ordine. Qualche lustro più tardi quest'ultimo praticamente scompare. W.A. Mozart si colloca proprio in questo periodo storico di transizione: in opere anteriori al 1777 incontriamo una scrittura di mezzo tra clavicembalo e fortepiano, in seguito invece si riscontra un trattamento più schiettamente pianistico. Quale può essere oggi l'approccio strumentale più corretto al corpus di sonate? Può essere vantaggioso utilizzare un fortepiano invece di un pianoforte? E quanto il pianoforte è in grado di dare o di togliere all'autenticità espressiva di queste pagine?
La questione è molto complessa e non posso dare una risposta netta su quale sia lo strumento più adatto. È chiaro che la scelta va valutata in rapporto con il risultato che un determinato interprete può ottenere su uno specifico pianoforte. Il mio obiettivo non è certo di dare una visione “più autentica” di queste Sonate (e anche qui ci sarebbe molto da dire su cosa si intende per “autenticità”), ma di offrire una lettura in cui almeno io stesso mi riconosca, quindi usando lo strumento con cui mi sento, in questo momento, più a mio agio. Avendo provato le Sonate di Mozart al fortepiano (in particolare su quelli della bellissima collezione di Edwin Beunk a Enschede, in Olanda e sui Walter della Collezione Giulini a Briosco) e su varie copie moderne, mi sono reso conto di come alcuni effetti timbrici suonavano su questi strumenti, e ciò è stato illuminante per la comprensione di molti aspetti del linguaggio mozartiano. Non mi considero un esperto di pianoforti storici, né credo che sia possibile improvvisarsi fortepianisti con pochi mesi di pratica. Magari fra diversi anni, con una maggiore esperienza, potrò avventurarmi in concerti pubblici al fortepiano (e non sarei contrario ad una leggera amplificazione, nel caso di sale molto grandi), ma per il momento mi accontento di poterlo suonare in privato. Con il pianoforte moderno, che invece suono in pubblico da oltre 30 anni, ho naturalmente molta più dimestichezza. Per questa incisione mozartiana ho quindi scelto un nuovissimo Fazioli F 278, con cui mi sono trovato subito a mio agio, grazie alla risposta della meccanica che mi consente di rendere molte sfumature dinamiche e di articolazione. Era mia intenzione offrire una sonorità e un approccio espressivo che fosse in qualche modo “memore” delle impressioni timbriche che queste Sonate hanno quando vengono eseguite su fortepiano della loro epoca, pur utilizzando un pianoforte moderno: ma lontano dalla consueta sonorità morbida, “patinata” e ricca di pedale che ci potremmo aspettare.
Per tornare alla questione dell'autenticità, con questa incisione non intendo certo affermare che abbia una maggiore o minore autenticità di altre, ma mi piace l'idea di offrire una prospettiva di ascolto forse meno allineata a ciò a cui siamo abituati, e comunque, ovviamente, anche diversa da quella delle ormai numerose incisioni su pianoforti storici o su copie moderne di essi.
Come mai ha scelto un'accordatura dello strumento così "desueta" come il temperamento non equabile di Francesco Antonio Vallotti? Potrebbe darcene una spiegazione tecnica? In termini espressivi, cosa la differenzia dal temperamento equabile, dall'800 a oggi universalmente praticato?
Il temperamento non equabile è un'accordatura desueta oggi, ma era consueta all'epoca di Mozart. Allora, viceversa, il temperamento equabile (ossia la divisione dell'ottava in dodici semitoni identici) esisteva sulla carta, ma non era frequentemente praticata, anche perché l'accordatura veniva fatta, ovviamente, ad orecchio, visto che non c'erano i moderni accordatori elettronici... Accordando ad orecchio, era naturale iniziare l'accordatura con intervalli di quinta o di ottava puri, ossia corrispondenti a quelli tra i suoni armonici emessi da una stessa nota. Le quattro corde di un violino (sol – re – la – mi) possono ancora oggi essere accordate con quattro quinte naturali (e infatti non ho mai visto un violinista usare con l'accordatore elettronico!). Invece l'accordatura del pianoforte pone un problema non da poco: dovendo accordare tutte le 12 note di ogni ottava, per tutte le ottave in cui si estende la tastiera, ci si scontra con vari problemi di “disarmonicità”. Non vi è qui lo spazio per scendere in dettagli tecnici, ma, semplificando drasticamente, potremmo dire che non è possibile mantenere l'accordatura “pura” di tutte le quinte e di tutte le ottave per tutte le note della tastiera, perché queste non “combaciano”: esiste una lieve discrepanza, un po' come, per lanciarsi in una metafora un po' azzardata ma suggestiva, nella differenza tra il calendario giuliano e quello gregoriano. Il “29 febbraio” dell'anno bisestile corrisponde, nell'accordatura, a un comma, ossia 1/9 di tono: questa è la differenza che risulta tra due note che dovrebbero corrispondere allo stesso tasto del pianoforte, se non si fanno degli adeguati “aggiustamenti”. Il “temperamento” è proprio il sistema di “temperare”, ossia aggiustare, gli intervalli, così che tutte le note accordate possano coincidere con i 12 tasti che al pianoforte corrispondono alle dodici note che compongono l'ottava. Ora, è ovvio che già al tempo di Mozart (e già da molto prima, s'intende) esistevano i temperamenti, ma si trattava di temperamenti “inequabili”, ossia che dividevano l'ottava in 12 semitoni non uguali. Esistevano molti diversi tipi di temperamenti inequabili, in base alle priorità che si sceglievano nell'accordare, cioè secondo le esigenze armoniche imposte dal repertorio che andava eseguito.
Nel caso delle Sonate di Mozart, non abbiamo certezze su quale temperamento egli usasse, ma io sono abbastanza sicuro che non usasse il temperamento equabile: ne è una dimostrazione il fatto che non abbia mai scritto una composizione pianistica basata in tonalità impraticabili con i temperamenti inequabili, come il fa diesis maggiore o il re bemolle maggiore. Le cose sono cambiate poco dopo, tanto che Hummel, allievo di Mozart, fu invece un sostenitore del temperamento equabile, come peraltro la sua musica conferma.
Nella scelta del temperamento inequabile, avevo l'esigenza di un'accordatura che mantenesse le caratteristiche di – potremmo dire – “biodiversità” tra le tonalità, ma nell'ambito di un equilibrio che consentisse di suonare in modo soddisfacente (ossia senza eccessive scordature) in tutte le tonalità toccate da Mozart, dando la priorità a quelle più frequentemente utilizzate. Il temperamento che porta il nome di Vallotti è uno dei più versatili, poiché suona “bene” in tutte le tonalità usate da Mozart. Inoltre, rispetto ad altri temperamenti che avrei potuto usare (come il Werckmeister III o il Kirnberger III), esso presenta una maggiore varietà di colori per ogni tonalità, avendo ben cinque tipi diversi di terze maggiori: chi dispone di una tastiera elettronica evoluta o di un pianoforte digitale può facilmente sperimentare i diversi temperamenti, se disponibili nelle impostazioni del menu. Per percepire le differenze, naturalmente, occorre una particolare attenzione alle sfumature e alle risonanze. Sembrano inezie, ma è un po' come accade agli audiofili quando si confrontano diversi sistemi hi-end: una differenza apparentemente da nulla diventa enorme quando si entra nella giusta dimensione d'ascolto. Per questo ritengo che chi ha già sviluppato una particolare sensibilità alle sfumature musicali potrà trarre una gratificante esperienza dal confronto di incisioni degli stessi brani, con pianoforti accordati secondo diversi temperamenti. Quando ho iniziato ad incidere le Sonate di Mozart, dopo la prima sessione con il temperamento Vallotti ho fatto fatica a tornare a suonare Mozart sui pianoforti accordati normalmente, che mi sembravano incredibilmente scordati!
L'iter creativo delle Sonate abbraccia un periodo temporale di quindici anni e segue l'evoluzione del pensiero musicale di Mozart. Quali mutazioni stilistiche avvengono tra la prima e l'ultima che l'interprete debba mettere in risalto? Esiste un approccio diverso, nella tecnica e nell'interpretazione, tra questi due poli estremi, magari progressivamente graduato nel percorso delle diciotto sonate?
Sono 15 anni molto densi di cambiamenti, sia nell'evoluzione artistica del tempo, sia nel percorso personale di Mozart. Le prime Sonate sono più brillanti, seppur sia già ammantate di un costante velo di ambiguità. Le ultime hanno una sorta gravità latente, anche quando apparentemente non sembrerebbe. L'uso dell'armonia è sempre più raffinato con l'evolversi della maturità mozartiana, così come lo è il contrappunto, che giunge a vette massime nella Sonata K 533-494. L'interpretazione si plasma conseguentemente a queste mutazioni, assumendo quindi toni freschi e brillanti nelle prime Sonate (dove peraltro è già presente una sottile malizia, con la quale Mozart si prende gioco delle convenzioni del tempo), per passare a tinte più scure e drammatiche con le Sonate della maturità. Anche l'evoluzione del fortepiano e del suo timbro è certamente da tenere in considerazione: nella mia lettura, ho cercato una sonorità più trasparente e chiara nelle prime Sonate, mentre nelle ultime (specie nella Sonata K 457 in do minore) ho trovato toni più profondi e contrastanti, assecondandone la scrittura più sinfonica e “pre-beethoveniana”.
Queste composizioni non hanno goduto della medesima - eccellente - fama dei concerti per pianoforte e orchestra, per esempio, ma sono citate spesso come Sonate di valore più che altro didattico. Con il senno di oggi sappiamo che non è così. Come giustifica la loro passata sottostima?
Ciò è comprensibile, per le stesse ragioni che hanno confinato la musica pianistica di Mendelssohn ad un ancor maggiore oblìo: la scrittura è ardua, obbliga l'interprete ad una totale trasparenza e precisione dell'eloquio, senza consentire alcuna sbavatura o sentimentalismo. Nei Concerti di Mozart per pianoforte e orchestra, invece, il pianismo è più sinfonico, nel senso che la presenza dell'orchestra, spesso dialogante con il solista, dà un supporto armonico e timbrico che facilita il pianista, facendolo sentire più “coperto” e meno solo. Nelle Sonate, pur in una scrittura generalmente “magra” ed essenziale, l'interprete si trova a dover agire da direttore d'orchestra e da prima donna allo stesso tempo, ed è tenuto a condensare in poche note una alta tensione drammatica, spesso accostata a momenti di virtuosismo spinto. E ogni minimo eccesso risulta subito evidente all'ascolto: forse per questo la maggior parte delle attuali incisioni mozartiane tendono a limitare i contrasti e gli slanci, quasi che si abbia paura di esagerare e rompere delicati equilibri. Il rischio certamente esiste, come anche nella musica pianistica di Mendelssohn, ma sono convinto che la soluzione migliore sia quella di lanciarsi, con spontaneità e senza remore, nel mondo poetico mozartiano, e di farlo vivere con tutte le sue variegate accensioni, che peraltro emergono da sole, ad una lettura fedele della partitura.