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Interview with Maurizio Corbella, Giornale della Musica, 9/2014

Roberto Prosseda, Mendelssohn: Da Capo al Fine, Decca 2014, triplo CD. 

Da Capo al Fine conclude, nel segno del ritornello, un percorso di dieci anni che ha portato Roberto Prosseda a incidere in nove album l’opera pianistica completa di Felix Mendelssohn-Bartholdy. Il triplo cd riassume simbolicamente l’arco dell’attività pianistica del compositore tedesco, comprendendo anche 29 prime incisioni assolute. A Prosseda che, proprio a partire dalla ricerca condotta in questi anni intorno ai manoscritti mendelssohniani, ha sviluppato una riflessione sul ruolo storico di un compositore talora ‘offuscato’ dai protagonisti del pianismo romantico, chiediamo qual è il bilancio di un’esperienza che definisce «di grande arricchimento e scoperta».

«Compito dell’interprete – racconta – è sempre in un certo senso solcare sentieri nuovi, portare il suo contributo per ampliare ciò che è disponibile a livello discografico. In questo senso Mendelssohn è stato per me una miniera, perché quando iniziai a occuparmene non potevo neanche sospettare che sarei giunto a registrare tutta la sua musica. Ero partito da alcuni inediti che avevo avuto modo di conoscere grazie a vari colleghi e amici musicologici, tra i quali vorrei ricordare il compianto Gian Andrea Lodovici, tra i primi a istradarmi in questo percorso e a produrre i miei primi due dischi con la Decca (Mendelssohn Discoveries del 2005 e Mendelssohn Rarities del 2006, ndr). Poi mi sono addentrato in due strumenti che mi hanno consentito di accedere più velocemente a brani che ancora non avevo conosciuto: il catalogo del fondo mendelssohniano della Staatsbibliothek di Berlino, pubblicato da Henle nel 2003, e il primo catalogo sistematico dell’opera di Mendelssohn pubblicato da Ralf Wehner (Breitkopf, 2009)». 

 

In che modo quest’integrale ricca di inediti contribuisce a riscrivere l’immagine di Mendelssohn?

«In realtà l’importanza della musica pianistica di Mendelssohn non sta tanto negli inediti, ma nei molti brani pubblicati che oggi sono praticamente dimenticati. Il senso di un’incisione completa sta proprio nell’offrire uno sguardo ‘dall’alto’ di una produzione pianistica che abbraccia stili molto diversi e attraversa l’intera vita del compositore. Da Capo al Fine comprende tale varietà di aspetti: si parte dai primi esercizi di quando Mendelssohn aveva 10 anni fino a giungere a brani scritti pochi mesi prima della morte, attraverso grandi capolavori, come le Variations sérieuses, di cui sono presenti anche quattro variazioni postume che Mendelssohn non aveva pubblicato, i sei Preludi e Fughe op. 35, che sono secondo me pagine piuttosto importanti del repertorio ottocentesco, pur essendo pressoché ignorate dai pianisti, a eccezione del primo Preludio e Fuga. Ci sono poi brani di grande interesse, anch’essi dimenticati, come i sette Charakterstücke op. 7 e l’Andante e presto agitato in Si maggiore. Nel complesso ricaviamo il ritratto di un compositore tra i più completi della storia della musica, in grado di esprimersi al meglio sia in forme classiche o neo-barocche, sia in contenuti nuovi. Mendelssohn non è stato un rivoluzionario nella scrittura pianistica, meno innovativo rispetto a Liszt o Schumann, ma ha saputo confezionare, pur nell’utilizzo di armonia tradizionale, una tavolozza espressiva adeguata ai suoi fini poetici. Possiede una finezza di scrittura, un’attenzione per il dettaglio e il cesello, una varietà di inflessioni nell’articolazione, nell’uso della polifonia e degli strati sonori, di uno staccato molto diversificato, che conferiscono alla sua musica una nitidezza e una varietà che richiedono molta attenzione sia da parte di chi suona, sia di chi ascolta. È una musica non pensata per un impatto spettacolare nell’ascoltatore, ma per ricercare un senso di perfezione estetica e intensità molto gratificanti per chi ha la voglia di scoprirle».

 

Quali problemi esecutivi hanno posto i manoscritti inediti?

«Ho cercato di offrire una lettura rispettosa delle indicazioni in partitura, che sono sempre molto dettagliate e precise. Quindi, per esempio, ho cercato di non confondere articolazioni staccate con articolazioni 'portate', a costo di rinunciare alla tentazione del pedale in certi passaggi e cercare di lavorare sul legato ‘di dito’. A ogni modo ho preparato una mia edizione degli inediti che uscirà tra qualche tempo per Curci».

 

Come spiega il fatto che Mendelssohn pubblicò relativamente poco?

«Il motivo è che non riteneva che la pubblicazione fosse un passaggio obbligato. Nessuno può dire che la Sinfonia italiana sia meno riuscita di altre sue composizioni, eppure non la pubblicò. Evidentemente, da un lato era molto esigente con se stesso, fatto che lo portava a sottoporre ogni brano a continue revisioni, dall’altro la mancata pubblicazione non può essere considerata necessariamente un indice di insoddisfazione. Viceversa, alcuni brani pubblicati sono pezzi d’occasione realizzati su richiesta degli editori, tra essi figurano gli stessi Lieder ohne Worte, che inizialmente Mendelssohn scrisse di sua iniziativa, prima di essere spinto dall’editore a produrne di nuovi, il che ne spiega il numero elevato e il fatto che siano quasi tutti editi. Diversamente, brani più di ricerca sono rimasti inediti perché non interessavano gli editori, ma il fatto stesso che lui li abbia suonati o fatti suonare spesso dimostra che ne era soddisfatto». 

 

Che tipo di relazione intravede tra la scrittura pianistica e la produzione orchestrale?

«Secondo me Mendelssohn, quando scrive per pianoforte, ha una concezione principalmente quartettistica: moltissima della musica pianistica è scritta a quattro voci ben identificabili e caratterizzate. In altri brani ci sono invece chiarissimi riferimenti alla scrittura per legni e ottoni e viene in genere molto facile immaginare sonorità di altri strumenti dell’orchestra nella musica di Mendelssohn. A differenza della musica di Schumann o di Chopin, che nasce per il pianoforte e non è trascrivibile, la musica pianistica di Mendelssohn si presta alla trascrizione in misura persino maggiore di quella di Beethoven e Schubert. È chiaro che non ragionava alla tastiera, ma nella sua mente visualizzava un’orchestra o un quartetto d’archi. Ciò non toglie che poi sul pianoforte funzioni benissimo – del resto era un ottimo pianista e sapeva come scrivere».

 

Qual è il riscontro di questa la musica in sala da concerto?

«Dipende chiaramente da cosa si suona, ci sono brani più adatti a essere apprezzati da qualunque tipo di pubblico per il loro carattere lirico o virtuosistico, altri più intellettuali che richiedono un contesto adatto. Ho confezionato un programma di recital interamente mendelssohniano in cui cerco di offrire al pubblico le diverse peculiarità, alternando composizioni ‘impegnate’ in forma tradizionale come le Variations sérieuses a brani virtuosistici come il Rondò capriccioso, una forma sonata come la Sonata op. 6 a miniature liriche come le Romanze senza parole. Nel complesso l’ascolto di un programma ben calibrato e differenziato risulta gratificante, perché il pubblico torna a casa con la sensazione di aver scoperto qualcosa in più di questo autore. Molti mi dicono che non credevano che questa musica potesse essere così bella, intensa e profonda. Queste reazioni di sorpresa derivano anche dal fatto che troppo spesso ci si aspetta da Mendelssohn una musica gradevole e garbata, ma priva di particolare intensità, cosa che io cerco di smentire in ogni concerto».