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Interview for "Una città", 12/2013

 “Un pubblico speciale” 

 

Una passione per la musica nata da bambino, l’incontro con Gian Andrea Lodovici, la sua intuizione su Mendelssohn e quell’invito ad andare in ospedale, ma non a trovarlo, bensì a fare un concerto... 

Roberto Prosseda, pianista, è noto soprattutto per le incisioni dedicate a musiche inedite di Felix Mendelssohn. È presidente del Comitato artistico dei Donatori di Musica.

Da dove viene la tua passione per la musica? 

Mio padre, che è mancato nel 2010, era un insegnante di inglese, molto appassionato di musica, quindi a casa c’erano molti strumenti, che io fin da piccolo avevo considerato un po’ dei giocattoli. Il più grande era il pianoforte, quindi quello che mi attraeva di più. Ecco, il mio rapporto con il pianoforte è cominciato cercando di piallargli un angolo con una pialla giocattolo che mi avevano regalato. Non sono neanche stato rimproverato; anzi, l’idea che questo pianoforte avesse attratto la mia attenzione - anche se non esattamente come i miei genitori speravano - è stata presa positivamente. Ma non sono mai stato forzato a suonarlo. Da solo ho scoperto le note; come tanti bambini che hanno un buon orecchio riuscivo a riprodurre delle melodie, delle canzoncine. Ho imparato a scrivere la musica prima di imparare a scrivere le lettere. Sono stato fortunato da questo punto di vista, perché non è stata una difficoltà. Molto spontaneamente e gradualmente ho capito che poteva diventare la mia attività principale -non voglio dire professione, perché sarebbe riduttivo. Noi musicisti abbiamo questa fortuna di unire la passione con ciò che dobbiamo fare per vivere. A posteriori dico che per me è stato importante fare concorsi senza vincerli. Non ho mai vinto un primo premio in un concorso molto importante; questo mi ha spinto a cercare il motivo vero del perché faccio musica e a scoprire che il senso per me sta nello spirito della condivisione. La condivisione è centrale nella mia ricerca; condivisione per me vuol dire comunicare le cose belle che scopriamo grazie alla musica. La musica esiste quando viene vissuta insieme, quando diventa occasione di scambio, il che, per accadere, necessita evidentemente di almeno due persone; questa dimensione dello scambio può avvenire in un concerto, quando si parla di musica, in una lezione tra insegnante e allievo; per me avviene soprattutto nei concerti dei Donatori di Musica. 

 

All’origine del tuo rapporto con i Donatori di Musica c’è l’incontro con Gian Andrea Lodovici.  

Proprio nel momento in cui avevo deciso di non fare più concorsi, avendo capito che non era quella la mia strada, ho incontrato Lodovici. Parliamo del 2002-2003: l’occasione fu un disco di musiche di Muzio Clementi prodotto per la Arts, l’incisione completa degli studi per pianoforte “Gradus ad Parnassum”. Io ero uno dei dieci pianisti coinvolti e così, grazie a questa operazione, lo conobbi e poi rimanemmo in contatto per lo più telefonicamente. Ogni tanto lo chiamavo: avevo capito che a lui piaceva condividere le sue riflessioni con giovani artisti; per me era un privilegio, visto che da lui c’era molto da imparare. In una di queste telefonate, mi disse: “Secondo me, potresti dedicarti a Mendelssohn”. Io, all’epoca, lo consideravo un autore abbastanza noioso, scomodo da suonare. Gli risposi: “Ma Mendelssohn non lo suona nessuno, è difficile, accademico...”. Lui aveva insistito: “Ma no, guarda che ci sono delle cose interessanti, degli inediti...”. Alla parola “inedito” mi si è accesa una scintilla. Ho sempre avuto la passione di fare qualcosa che avesse un minimo di utilità, diciamo così. Spesso noi musicisti classici siamo molto autoreferenziali e tendiamo a fare ciò che già si fa: non solo a riprodurre musica preesistente, che è ovvio, ma anche interpretazioni preesistenti. Avevo proprio voglia di fare qualcosa di non preesistente e, avendo saputo che c’erano degli inediti, mi sono messo alla caccia. Lodovici non mi aveva detto molto di più, ma mi aveva dato qualche dritta, quasi come in una caccia al tesoro. Da lì sono riuscito, grazie all’aiuto suo e di altri musicisti e musicologi, a trovare dei manoscritti e quindi anche gli stimoli per seguirli, studiarli. Una cosa che spero ci sia sempre nel mio percorso è proprio questa gioia della scoperta. La musica va riscoperta continuamente. Pensiamo a cosa dev’essere stata la prima esecuzione di una sonata di Beethoven! Sarebbe bello anche oggi riproporre quell’atmosfera di sorpresa, entusiasmo, o anche delusione: insomma, che il pubblico non sappia già cosa ascolterà e come verrà suonato. Comunque è stato così che ho conosciuto Lodovici. Poi lui si ammalò. Quando capì la gravità del tumore, mandò una lettera a tutti gli amici, una lettera di addio. Era la primavera del 2007 e lo scritto suonava più o meno così: cari amici, vi saluto, adesso io sparisco, mi mancano pochi mesi, non ho speranze di guarigione... Insomma, un congedo, anche piuttosto triste. Dopo due mesi venne ricoverato in Oncologia a Carrara. Lì successe qualcosa. Il primario, Maurizio Cantore, gli chiese: “Cosa fai nella vita?”, e lui: “Facevo il produttore discografico, organizzavo concerti...”. “No, non facevi, fai, mica sei morto”. “Eh, ma ormai sono qui, cosa posso fare?”. “Puoi organizzare una stagione di concerti in reparto!”. La cosa è nata così. Dopodiché Gian Andrea chiamò me e mia moglie chiedendo se avevamo voglia di andare in ospedale e noi: “Certo, veniamo a trovarti”. “No, no, intendevo a suonare, a fare un concerto”. E così andammo e suonammo, proprio della musica di Mendelssohn, tra l’altro. Suonai anche un inedito di Mendelssohn in prima esecuzione mondiale. Per dieci pazienti! Noi capimmo molte cose in quel concerto, così come nei successivi: cioè che lì veramente vai al cuore della musica e del senso che ha per noi dedicare la vita alla musica, che è appunto di suonare per gli altri. Quando suoni per dei pazienti, alcuni dei quali probabilmente non ascolteranno altri concerti, evidentemente cambia anche l’approccio. Lì la musica diventa davvero un dono reciproco. Donatori di Musica è nato così, quando alcuni di noi, che erano andati ai primi concerti, ma anche i pazienti e gli stessi dottori, si resero conto che attorno a quel concerto succedeva qualcosa di magico: non era un concerto come un altro, non era neanche un’attività ricreativa per distrarli. Un concerto, infatti, facilmente ti porta a riflettere su questioni esistenziali, anche sulla morte. Non è vietato suonare una marcia funebre. In generale i pazienti non dicono molto. Sicuramente si avverte della gratitudine. Una riconoscenza che è reciproca. Ovviamente che il concerto si tenga in un ospedale resta una cosa abbastanza spiazzante e insolita. Quanto a quel pubblico così speciale, da un lato verrebbe da dire che è veramente un pubblico ideale, ma, per certi versi, non lo è affatto, perché non ti mette a tuo agio, nel senso che ti carica di grandi responsabilità suscitando un senso di impotenza, di frustrazione: cosa posso fare per loro? Però ti aiuta anche a dare le giuste priorità alle cose. Avere l’occasione di parlare con queste persone che magari proprio nella sofferenza hanno trovato una felicità... è un grande stimolo, un privilegio. 

 

State discutendo su come allargare questa esperienza ad altri luoghi di cura...  

Ci stiamo interrogando su come far sì che le stagioni di Donatori di Musica possano essere presenti anche in altri ospedali, preservando però le caratteristiche peculiari di questa esperienza. Il rischio è che rimanga l’involucro, il contenitore, e vengano meno i principi, la sostanza. Oggi sono coinvolti sette ospedali e vorremmo che diventasse qualcosa di più stabile, strutturato. Intanto abbiamo creato un piccolo comitato artistico per selezionare i musicisti dal punto di vista musicale ma anche umano. Esiste anche un protocollo medico che indica le varie fasi necessarie affinché un ospedale possa chiedere di far parte di Donatori di Musica. Ci vuole intanto una richiesta da parte dell’ospedale. Non è giusto andare a bussare alla porta, chiedere a un ospedale di poter ospitare una stagione. È qualcosa che deve nascere da un bisogno sentito. La richiesta deve essere sottoscritta anche dal direttore sanitario: abbiamo sperimentato che non basta la buona volontà del singolo per far funzionare il tutto. Senza l’appoggio anche formale e ufficiale della struttura si rischia di creare conflitti, anziché armonizzare. È importante far capire che i concerti di Donatori di Musica non sono solo concerti negli ospedali, ma qualcosa di più. Il concerto è una leva, un’occasione per provare a cambiare rapporti tra le persone. I concerti di Donatori di Musica hanno luogo dove c’è già un’eccellenza nell’attenzione alle persone, nel rapporto tra medici e infermieri con i pazienti. Se tutto questo non c’è, evidentemente si può lavorare per predisporlo; in questo senso, conoscere Donatori di Musica può essere forse uno sprone, un pretesto per iniziare a cambiare le cose. È importante che chi viene a conoscere l’esperienza di Donatori di Musica capisca esattamente di cosa si tratta: è un progetto che porta i medici e gli operatori sanitari a mettersi in discussione. Alcuni, quando capiscono questo, tornano indietro. A volte ci sono pure dei problemi pratici: in alcuni ospedali l’esperimento si è concluso perché gli infermieri non volevano fare gli straordinari, o perché il primario non voleva che l’accesso al reparto ai familiari fosse prolungato oltre l’orario, cosa che invece il concerto presuppone. È chiaro che Donatori di Musica va un po’ a invadere degli spazi, a creare “scompiglio”. Per questo è fondamentale che ci sia un’unità di intenti. Quando i concerti di Donatori di Musica entrano in un ospedale, succede qualcosa... Dovreste vedere il reparto di Maurizio Cantore a Carrara. Non è più un reparto, è un centro culturale! Ci sono mostre fotografiche, corsi di pittura, di recitazione, letture di poesie. È un reparto aperto a tutti, anche visivamente è un luogo ospitale, è tutto colorato, non c’è una parete bianca, non c’è puzza di medicinali, non c’è l’odore dell’ospedale. C’è anche un giardino, perché una volta c’è stato un giardiniere a curarsi e Maurizio Cantore, come al solito, gli ha chiesto: “Cosa fai?”, e alla risposta canonica: “Facevo il giardiniere...”, non se l’è fatto ripetere: “No, lo fai ancora!”, “E dove?” “Qui!”. È un reparto impresso dalla presenza delle persone che ci sono passate perché ognuno ha lasciato qualcosa. 

 

Gli altri musicisti che coinvolgete come reagiscono? 

Quasi tutti dopo la prima volta ringraziano. Ovviamente quando metti piede in un ospedale vedi barelle, persone tristi e pensi che può accadere anche a te, quindi l’impatto è sempre un po’ difficile. Quando però arrivi in reparto, nel luogo del concerto... beh, già vedere un pianoforte in un day hospital è qualcosa che apre il cuore. Noi poi siamo sempre accolti molto bene. Sarebbe bello che tutti fossero accolti come veniamo accolti noi. Per me è sempre una festa. Cosa che spesso non succede quando vai a suonare in qualche teatro, dove magari se chiedi di entrare mezz’ora prima per studiare storcono il naso... Dipende sempre dallo spirito con cui fai le cose. Ai concerti dei Donatori di Musica, ci sono anche gli “imbucati”. A Carrara succede spesso che musicisti che abitano in zona, che magari hanno già suonato, abbiano piacere a tornare. Io sono tra questi. Ma quel che è più importante è che tornano anche gli ex malati o i familiari del paziente che non c’è più; alcuni tornano per tenere in vita il ricordo, altri forse per essere parte attiva di una cosa bella. Spesso a Carrara le torte che vengono servite dopo il concerto le fanno le signore che magari hanno avuto l’intervento al seno qualche anno prima. C’è anche l’ex paziente che viene per dire agli altri malati: “Guardate, io sto bene, potete tornare a star bene anche voi”. I musicisti comunque rimangono contenti e colpiti e subito dicono: “Io sono disponibile a farne altri”. Sono situazioni in cui tutti ringraziano tutti. È curioso, fa anche sorridere. All’inizio, quando non c’era un gruppo consolidato, alcuni li invitavo io, ma ho visto che l’invito forzato non funziona. I musicisti che davvero si affezionano all’esperienza sono quelli che si sono fatti avanti spontaneamente. Adesso c’è una lista d’attesa di oltre quattrocento richieste! E siamo già in oltre cento ad aver tenuto almeno un concerto. Calcolando che ci sono sette stagioni attive, siamo già quasi troppi. Sarebbe bello che aumentassero le stagioni, quindi gli ospedali, così da coinvolgere anche altri musicisti. Stiamo tentando di sondare anche al Sud. Abbiamo organizzato un concerto all’ospedale Garibaldi di Catania per far conoscere alla cittadinanza questa esperienza. È venuto proprio Martin Berkofsky. Negli ospedali grandi ci sono maggiori problemi di gestione. Non a caso le stagioni attive adesso sono in ospedali piccoli, di provincia, dove forse è più facile superare certi intoppi burocratici, c’è più autonomia e spesso c’è anche l’eccellenza. È chiaro che in un ospedale dove bisogna aspettare un anno per fare un esame e i medici sono pochi, sottopagati, con contratti precari, è difficile che un progetto del genere possa attecchire. Ma nulla è impossibile. A Brescia, a curare la stagione, è Mauro Tagliani, uno psico-oncologo con un contratto a termine, che a volte paga di tasca propria per proseguire Donatori di Musica!

 

(a cura di Barbara Bertoncin e Edi Rabini). Pubblicata nella rivista “Una Città”, dicembre 2013, dedicata alla Fondazione Langer e al Premio Langer assegnato a Donatori di Musica.