DIVULGAZIONE
Libri e saggi
Libri e saggi
1. La Toccata
2. Armoon e Two Moons
3. Études Boréales
4. Études Australes
5. Le Cadenze
6. Il pianoforte nei brani cameristici e sinfonici
Scorrendo il curriculum di Ivan Fedele si apprende che negli anni giovanili egli ha svolto con successo l’attività di pianista concertista. E ciò spiega la sua evidente consapevolezza di cosa è “pianistico” e di cosa non lo è, ossia la sensibilità verso i parametri fisiologici ed ergonomici che regolano l’efficacia del gesto strumentale; d’altro canto, però, proprio a seguito della sua esperienza come concertista Ivan Fedele ha chiaramente sentito l’esigenza – specie, come vedremo, negli Studi Boreali – di prendere le distanze dal suo strumento, e di riconsiderarlo da compositore, con uno sguardo il più possibile indipendente dalle rischiose e inconsce influenze del proprio background di interprete.
1. La Toccata
Che Fedele conosca bene, molto bene, il pianoforte, si intuisce subito esaminando la prima delle sue partiture pianistiche: la Toccata, del 1983 (rivista e pubblicata nel 1988). Qui la proliferazione di figurazioni rapide è chiaramente derivata dalla conformazione della tastiera, con il recupero di un rapporto tattile tra compositore-interprete e strumento che ha origine nei modelli toccatistici secenteschi. Questi erano già stati ripresi nel secolo scorso da compositori come Prokofiev, Ravel, Debussy, Khachaturian, Petrassi, i quali nelle proprie toccate pianistiche li inserirono in un contesto nettamente propulsivo e percussivo, tipicamente novecentesco. Fedele recupera sia la libertà inventiva e la vitalità delle figurazioni tastieristiche barocche, sia la lucida consapevolezza storicistica dei suoi più vicini predecessori sunnominati. L’uso del pedale tonale, che tiene alzati gli smorzatori dell’ottava più grave, consente di ritagliare solo alcune delle risonanze della cordiera e di creare un peculiare alone. Ciò consente anche di dar vita ad una trama compatta ma multiforme, giacché dalla stessa figurazione, apparentemente monodica, si snodano più linee, i cui profili derivano dalle note che vengono poste in risalto dal naturale movimento di rotazione richiesto alle mani del pianista. Questo esempio di “contrappunto fisiologico” insito nella scrittura pianistica di Fedele sarà successivamente sviluppato e portato a più elevati stadi di complessità negli Studi Australi e nelle Cadenze. È tuttavia interessante notare come, già nella sua prima composizione pianistica, Fedele abbia chiaramente saputo delineare un proprio approccio al linguaggio tastieristico, che coniuga sapientemente la fisicità del gesto per renderlo perfettamente adeguato ad esprimere l’idea musicale. La Toccata è dunque un brano perfettamente coerente e compiuto, con un linguaggio (consapevolmente) legato a modelli preesistenti, e tuttavia già peculiare per efficacia idiomatica e chiarezza formale: due prerogative che resteranno sempre evidenti nella successiva produzione di Fedele, anche quando la selezione del materiale e la diversa organizzazione musicale lo condurranno a risultati sonori molto diversi.
2. Armoon e Two Moons
La poetica di Fedele è stata da sempre caratterizzata dall’esigenza di porre il suono in un particolare rapporto con lo spazio circostante. Ne risulta una musica pluridimensionale per eccellenza, in cui il materiale è sviluppato non solo in senso lineare, ossia nel tempo, ma anche, e soprattutto, in senso spaziale, vale a dire attraverso la proiezione del suono su multipli piani prospettici. Questa peculiare ricerca sembrerebbe in apparenza scarsamente compatibile con il pianoforte, strumento caratterizzato da evidenti limiti nel controllo delle risonanze e dell’elaborazione timbrica, non consentendo (salvo rari e macchinosi artifici) la modifica del suono dopo l’attacco del tasto. Eppure Fedele, sin dalla Toccata, ha individuato uno spazio di risonanza modulabile e perfettamente intrinseco al pianoforte, ottenuto con l’uso del pedale tonale. In tal modo, lo spazio è insieme parte dell’esecuzione, ma anche pressoché indipendente dalla musica suonata “sui tasti”. Non ci stupisce, vista questa premessa, che, solo pochi mesi dopo la Toccata, Fedele si sia cimentato in un brano per quattro pianoforti, Armoon (1983-84), in cui la presenza di più cordiere e tavole armoniche viene sfruttata appieno per ampliare e meglio caratterizzare “quell’ambiente nel quale – come egli stesso ha spiegato in una successiva intervista a proposito del suo Concerto per pianoforte e orchestra – lo strumento solista si possa proiettare con le sue figure assolutamente indipendenti, un ambiente che reagisca secondo varie modalità a quelle sollecitazioni”[1]. In Armoon lo spazio di risonanza varia per ciascuno dei quattro pianoforti, ognuno dei quali isola diversi suoni armonici con il pedale tonale. La disposizione nello spazio dei quattro strumenti (eventualmente orientati in varie direzioni) definisce un’ulteriore diversificazione della direzionalità delle risonanze, avvicinandosi ad effetti tipici della musica elettroacustica. Questa idea era già stata esplorata, seppur in un contesto molto diverso, già da Luigi Dallapiccola negli Inni – Musica per tre pianoforti (1935), opera che Fedele eseguì in concerto a Milano con Bruno Canino e Antonio Ballista quando era studente del Conservatorio “G. Verdi”. E non è un caso, peraltro, che nel 2000 Fedele abbia ripreso proprio la partitura di Armoon per realizzare un nuovo brano, intitolato Two Moons. Qui, due dei quattro pianoforti di Armoon vengono affidati alla parte elettroacustica, in cui ulteriori elaborazioni del segnale sonoro consentono una più precisa collocazione nello spazio. Mediante la presenza di una traccia elettronica a 6 canali e dell’amplificazione dei pianoforti sulla scena, le frequenze della tastiera vengono diffuse in maniera differenziata, collocando i bassi nel fondo della sala e gli acuti nella parte più vicina al palco. La dialettica tra oggetti in primo piano e oggetti sullo sfondo assume, quindi, una più complessa articolazione. Cambia radicalmente, inoltre, l’interazione tra gli esecutori. Laddove in Armoon i quattro pianisti erano tutti “parte attiva” nell’interpretazione, in Two Moons il supporto ADAT preregistrato assume un ruolo di guida oggettiva, indipendente dagli spunti interpretativi dei due pianisti “umani”, i quali, a loro volta, dovranno trovare un adeguato connubio tra la propria individuale propositività e la presenza inviolabile dei due strumenti virtuali.[2]
3. Études Boréales
Guardando le partiture di Études Boréales (1990) emerge subito una rara chiarezza del gesto espressivo, una finissima selezione ed elaborazione tematica e, di conseguenza, una (apparente) rinuncia a sfruttare tutte le risorse dinamiche e timbriche della tastiera. Contrariamente a quanto il titolo “Études” potrebbe lasciar supporre, Fedele qui non usa la sua indubbia sapienza tecnica e strumentale per sfoggiarla in brani dal grande effetto spettacolare e dal forte impatto esteriore: al contrario, gli Studi Boreali presentano un approccio alla tecnica strumentale quasi “astratto”, testimoniando come si possa ottenere una notevole efficacia espressiva e un’accurata focalizzazione timbrica anche con elementi tematici ridotti all’osso. Studi sul virtuosismo, dunque, ma un virtuosismo sublimato nella definizione di una luce sonora peculiare, inedita, e sempre profondamente radicata nel progetto formale: tanto che tutti gli agglomerati timbrici che determinano l’incanto auditivo della scrittura sono sempre il risultato coerente dello snodarsi di linee e di ritmi, funzionali al discorso musicale. Perché il titolo “Boréales”? Il riferimento agli omonimi Studi di Cage per violoncello e pianoforte è inevitabile, naturalmente, anche se gli elementi in comune sono individuabili soprattutto sulla ricerca di determinate sonorità “extrapianistiche”, piuttosto che sui procedimenti compositivi. Cage, peraltro, si serve di una complessa preparazione del pianoforte e basa la svolgimento formale su un’alta percentuale di alea, mentre gli Studi di Fedele, che non prevedono la preparazione del pianoforte, sono tutt’altro che aleatori e, anzi, presentano una straordinaria precisione di scrittura in tutti gli aspetti (struttura, dinamica, timbro, articolazione, agogica). Nella sua breve presentazione dell’edizione a stampa, l’Autore specifica che l’aggettivo “Boréales” è riferito in particolare alla luce radente che egli ha conosciuto durante il primo soggiorno in Finlandia. Luce e timbro, elementi biunivocamente connessi, sono alla base della ricerca poetica dei cinque Studi, ognuno dei quali scandaglia un diverso aspetto della luce in rapporto con il suono, attraverso, ovviamente, il pianoforte e il pianista.
Il primo Studio è costituito da una serie di accordi basati su pochi, ripetuti intervalli: settima maggiore, quarta e quinta giusta. Anche la dinamica è accuratamente limitata a due gradazioni, che assumono valenza strutturale: ff e pp (solo in un caso appare un mp). Le prescrizioni di articolazione sono altrettanto attente e limitate: questi tre elementi (dinamica, articolazione e accordi) danno vita ad una rete di ricorrenti accostamenti, così da generare una simmetrica struttura timbrica che è alla base dello svolgimento formale del brano. L’uso frequente di procedimenti di inversione e retrogradazione è un aspetto ricorrente ed unificante nei cinque Studi.
Se lo Studio n. 1 era incentrato su una scrittura accordale e di conseguenza accentuava l’aspetto verticale, isocrono della percezione sonora, il secondo, al contrario, esplora l’orizzontalità delle linee, creando un fine contrappunto di due voci sempre nettamente differenziate grazie a due dinamiche contrapposte. Contraddistinte dalle indicazioni HS (Hauptstimme) e NS (Nebenstimme), queste due linee generano un semplice, ma al contempo ambiguo, intreccio, che si snoda attraverso tutta l’estensione della tastiera. L’ambiguità percettiva è dovuta al frequente scavalcarsi delle due linee, che a volte finiscono per scambiarsi di posizione, determinando suggestivi effetti di eco e di rimbalzo sulla medesima nota, e stimolando così l’abilità e il controllo timbrico dell’esecutore. Altrettanto stimolata è la sensibilità melodica dell’interprete, che deve saper intonare i diversi intervalli, a volte ben più ampi del solito (si arriva fino alla 15ma) con un’adeguata tensione lineare. La singolare coda, interamente basata su accordi di tre note contigue (la#-si-do alla mano destra, fa#-sol-lab alla sinistra), compensa l’orizzontalità della parte precedente con un’ossessiva reiterazione dei suddetti accordi, compattando le molteplici ramificazioni del canone in una graduale rarefazione dinamica e agogica. L’autore definisce questa coda “anodina”, in esplicita opposizione – quasi un “antidoto” – all’estrema varietà intervallare e ritmica della sezione precedente.
Il terzo Studio potrebbe considerarsi uno studio sulle acciaccature ribattute. Ha una struttura ABA, con un tempo in tre quarti con frequente presenza di terzine, quasi a ricordare la forma dello scherzo classico. La sezione A è basata esclusivamente su due note: reb e do. Ma il vero protagonista di questa sezione è lo spazio armonico in cui queste due note rimbalzano, accuratamente delimitato dalla selezione delle risonanze ottenuta con il pedale tonale. Le fulminee acciaccature ribattute, che arrivano fino a quattro ripetizioni della stessa nota, gravitano rapidissime, e imprevedibili come elettroni, attorno ad un nucleo mai evidente, identificabile con il do centrale, che rappresenta l’asse di simmetria attorno al quale si snodano i disegni intervallari. La sezione B, per contrasto, è invece costituita da una tesissima linea di note lunghe e raddoppiate a distanza di due ottave. Qui lo spazio di risonanza della sezione precedente si concreta in un canto ben percepibile e luminosissimo, trasformando quell’inquietudine già prevista dall’indicazione di andamento (“Un poco inquieto”) in una tensione verso mondi sospesi e ultraterreni. Il ritorno della sezione A consiste in una sorta di ripresa abbreviata, conducendo l’incedere armonico del brano sulla perfetta consonanza di due do a distanza di 4 ottave. Questo Studio ricorda da vicino il secondo tempo delle Variazioni op. 27 di Webern, anch’esso basato su gruppi di note staccate che rimbalzano attorno ad un asse di simmetria (in quel caso, il la3).
Il quarto Studio è certamente quello timbricamente più ardito della raccolta, essendo basato prevalentemente sui suoni armonici derivati dall’intervento delle dita sulle corde. In questo caso non è previsto l’uso del pedale tonale, proprio perché tutto lo studio non fa altro che selezionare le risonanze di terza (o decima) maggiore, agendo direttamente sulla cordiera, e in particolare isolando il quarto armonico. L’aspetto maggiormente affascinante è dato dalla presenza degli unisoni “sporchi”, ossia di un suono armonico a cui segue subito la corrispondente nota suonata tradizionalmente sulla tastiera. Per le ovvie ragioni di costruzione del pianoforte, che non consentono una perfetta riproduzione degli armonici, questi unisoni non sono mai perfetti, e proprio questa imperfezione viene sfruttata a fini poetici da Fedele. Ne deriva un rimbalzo “alterato”, che veste così la risonanza del suono armonico con una scia deformante di grande fascino. Questo studio è perfettamente palindromico, per cui nella seconda metà sarà il suono reale a essere seguito da quello armonico, con un diverso ma altrettanto efficace effetto spaziale. La principale linea tematica gravita attorno alla tonalità di re bemolle maggiore, che non a caso è la tonalità prediletta da Chopin per le sue particolari esplorazioni sulle risonanze (Notturno op. 27 n. 2, Preludio op. 28 n. 15).
Il quinto Studio abbina una scrittura più tradizionalmente virtuosistica ad un’estrema chiarezza dell’ordito contrappuntistico: si apre con una raffica di biscrome in fortissimo, che rispondono ad una complessa simmetria intervallare basata sul moto contrario e speculare delle due mani. Da questo intenso affollamento di materiale lo studio si dipana in un progressivo alleggerimento dinamico e ritmico, in cui lo spazio viene gradualmente svuotato, così che le risonanze assumono una sempre maggiore pregnanza espressiva.
4. Études Australes
Con i cinque Studi Australi (2002-2003), Ivan Fedele adotta un approccio dichiaratamente “pianistico”, ribaltando quindi la concezione metafisica e astratta degli Studi Boreali, e ricollegandosi esplicitamente alla gloriosa tradizione romantica dello “studio” inteso come esempio di virtuosismo trascendentale. Ciascuno degli Studi Australi ha un proprio titolo che rimanda ad un particolare luogo geografico (per i primi tre) o ad un determinato genere ornitologico (per gli ultimi due), sempre legato alle zone polari dell’emisfero. I titoli non danno adito, tuttavia, ad alcun tipo di descrittivismo o di programma, bensì testimoniano la singolare ricerca poetica sottesa alla concezione di questi Studi: un’inedita integrazione di nuove sperimentazioni timbriche e tecnico-gestuali, pur innervata su una radicata consapevolezza dei principi fisici ed acustici che governano il far musica con il pianoforte. In questo senso, Ivan Fedele con gli Studi Australi aggiunge un importante contributo al genere dello Studio pianistico, proseguendo un percorso che ha visto protagonisti autori come Rachmaninoff, Liapunov, Ravel, Messiaen, Bartók, Ligeti.
Il primo Studio Australe s’intitola “Tierra del Fuego” e prende spunto dalla peculiare compresenza di elementi contrastanti tipici di quell’area: colori cupi e al contempo luminosi, movimento e contemplazione, entità in opposizione, eppure convergenti. L’indicazione iniziale “Come un viento azul…” è abbinata ad una figurazione rapidissima di sestine, in cui il gesto fisico, inizialmente inscritto nel gruppo delle sei note (una terzina per mano: inizialmente solo tasti bianchi per la mano destra e tasti neri per la sinistra), gradualmente si fa indipendente dallo schema ritmico, così da generare un interessante sdoppiamento percettivo nell’interprete. Il ritmo fisico dell’esecuzione, dettato dall’alternanza delle due mani, assume così una sua autonomia rispetto a quello che si evince dalla lettura della partitura, con il risultato di un ulteriore terzo ritmo, che è quello percepito dall’ascoltatore, specie se questi è in grado di vedere le mani del pianista. La gestualità assume così un ruolo primario, non solo per la percezione visiva, ma anche per l’individuazione di un particolare colore timbrico. Il fatto che i tasti neri vengano sempre percossi dalla mano sinistra (tranne nella parte finale, in cui le due mani si invertono), determinandone così una posizione sopraelevata ed avanzata rispetto alla destra, produrrà un timbro particolarmente scuro e indeterminato, perfettamente adeguato a rappresentare quel “viento azul” evocato dall’Autore. Il flusso indistinto e pulviscolare che ne deriva acuisce la dimensione orizzontale dell’Étude, dando una particolare eloquenza alle numerose increspature e accensioni che animano la partitura. La concezione trascendentale di questa scrittura è evidenziata dall’estremizzazione delle indicazioni dinamiche, specie nel piano: si arriva fino a ppppp (con tanto di punto esclamativo), in una figurazione rapidissima nel registro grave, che certamente rende particolarmente ardua la realizzazione pratica della prescrizione dinamica. Evidentemente (e qui corre in aiuto il punto esclamativo), il ppppp indica soprattutto l’anelito ad una sonorità irreale, che, appunto, trascenda la concretezza dell’esecuzione ed aspiri a toccare una dimensione al di là del tangibile. A tale proposito, val la pena di citare quanto dichiarato da John Cage a proposito dei propri Studi Australi: "I'm interested in the use of intelligence and in the solution of impossible problems. And that’s what these Etudes are all about; a performance would show that the impossible is not impossible".
Il secondo Studio Australe, “Platea di Weddell”, indaga il concetto di ghiaccio, sia dal punto di vista sensoriale, sia per le suggestioni poetiche ad esso legate. Ghiaccio non è solo staticità e freddo, ma anche tensione, durezza, trasparenza, purezza cristallina, luce riflessa. Fedele ricorre ad una scrittura stratificata in molteplici registri per evocare la prismatica essenza del ghiaccio. Tutto il brano è innervato da un trillo continuo in pianissimo, che si ricollega alla morfologia della Platea di Weddell, immersa nelle acque antartiche. L’idea di profondità e di “emersione” costituisce uno spunto per lo sviluppo formale del brano, costituito da ondate ascendenti di portata sempre maggiore. I trilli, di varia ampiezza, percorrono tutti i vari registri della tastiera, formando una base, quasi un continuum ipnotico, su cui gradualmente si addensano gli altri numerosi elementi che costituiscono il materiale tematico. Il motivo maggiormente caratterizzante (anche se sarebbe qui improprio parlare di melodia) è la lenta scala cromatica ascendente e ritmicamente asimmetrica, che parte dalla seconda battuta e raggiunge il suo climax esattamente al centro del pezzo, per poi scendere gradualmente fino ad estinguersi nelle zone più gravi. Alla peculiare definizione timbrica del brano concorrono i molteplici strati “statici” della trama polifonica, tra cui il lento, regolare rintocco del mi grave, immobile ma sempre evidente in mezzo forte, e i vari bicordi (soprattutto di seconda minore, settima maggiore o quinta diminuita), dislocati nel registro grave e medio, sempre in p o pp e in ritmo di terzina. Questi elementi “anodini”, aggiunti al progetto formale di base, hanno la funzione di restituire una percettibilità, una “umanità”, evitando che la forma prenda il sopravvento sull’efficacia percettiva. Anche qui, la definizione di un particolare timbro non è mai slegata da una precisa trama polifonica accuratamente determinata in ogni sua parte. Talmente accurata, anche nelle relative indicazioni dei dettagli di articolazione e dinamica, da richiedere fino a cinque pentagrammi. La definizione dei livelli dinamici è oltremodo precisa ed aderisce a questa molteplice stratificazione polifonica, tanto da prescrivere simultaneamente anche quattro o cinque diverse indicazioni dinamiche, una per ogni strato, e ciascuna con una propria, autonoma gestione dei crescendo e diminuendo (che, nel caso della linea cromatica, hanno un’estensione di numerose pagine). Come nel precedente Studio, anche qui le indicazioni spesso sfiorano l’utopia, confermando il carattere trascendentale della scrittura e delle intenzioni poetiche dell’autore.
Lo Studio Australe n. 3, Cape Horn, è il più magmatico ed eruttivo. Dopo avere scandagliato mondi sonori cristallizzati e al limite con il silenzio, qui Fedele ricerca la massima energia e potenza sonora, con una scrittura che richiede all’interprete un’estrema forza, unita ad un’elevata e costante velocità muscolare. La scrittura è particolarmente curata e si basa su una struttura di piccoli frammenti di scale reiterati canonicamente per aumentazione o diminuzione, creando un flusso dal profilo asimmetrico e continuamente cangiante. In questo aspetto, Fedele riprende un procedimento spesso adottato da György Ligeti nei suoi Studi (in particolare in Automne a Varsovie e in Vertige), e ancor prima utilizzato, in modo ancor più radicale, da Colon Nancarrow nei suoi Studi per player piano. A differenza di Ligeti, però, Fedele adotta l’espediente del canone reiterato non tanto come base strutturale del brano, quanto come mezzo timbrico funzionale ad una precisa esigenza coloristica. Vi sono, inoltre, innumerevoli altri dettagli che rendono vario e imprevedibile il dipanarsi del materiale tematico, pur senza alcun cedimento della temperatura drammatica, costantemente elevatissima. La tenuta fisica e mentale del pianista viene qui messa a dura prova, e anche questo aspetto conferma la concezione trascendentale del virtuosismo di Fedele, che richiede un continuo superamento dei limiti ragionevolmente intesi e quindi un atteggiamento di costante sfida ai principi fisici e meccanici della produzione e della percezione sonora.
Il Quarto Studio Australe prende il titolo di Aptenodytes, dal genere di uccelli che comprende i pinguini di taglia più grande, abitanti eletti dei mari antartici. Uccelli non in grado di volare, dal carattere contemplativo e fatalmente statico, forgiato dalla continua convivenza e integrazione con il clima e il paesaggio polare. Tutti questi aspetti vengono trasposti in una scrittura insieme meccanica e misteriosa, rimandando a quella ineffabile evocatività che Olivier Messiaen aveva saputo individuare con la sua amorevole e poetica catalogazione ornitologica. Il legame con Messiaen non è casuale: questo Studio, come anche il successivo, è stato commissionato a Fedele per il Concorso Pianistico “Olivier Messiaen” (Parigi, 2003). Tuttavia, al di là del raffinato omaggio al grande compositore francese, l’approccio di Fedele con il mondo dell’ornitologia è ben diverso. Ben lungi da tentazioni mistiche o esplicitamente scientifiche, in questo caso il riferimento all’Aptenodytes è soprattutto una suggestione poetica e formale: il ritmo “zoppo” con cui i pinguini battono le ali diventa qui uno spunto per indagare, con la consueta precisione della scrittura, alcuni aspetti dell’universo timbrico dato dalle risonanze pianistiche e dalle sovrapposizioni di diverse entità ritmiche. Sin dall’inizio dello Studio, infatti, è evidente la particolare ricercatezza della poliritmia, con una giustapposizione di quattro accordi contro cinque, subito dopo velocizzata in una sequenza di altri accordi, tre contro quattro. Tutto lo Studio si snoda attraverso la compresenza di ritmi diversi, avvolti in uno spazio sonoro determinato dal pedale tonale. È questo certamente il più “Boreale” degli Studi Australi, pur serbando l’estrema differenziazione dinamica e la programmatica difficoltà tecnica tipica della raccolta di cui fa parte.
Con Chionis Alba Fedele mantiene l’attinenza con l’ornitologia. In tutto il brano è immanente l’idea di “volo”, inteso come un continuo flusso di note rapidissime che vanno affrontate del pianista con la stessa attitudine naturale, fisiologica, con cui un uccello affronta il volo: ossia superando i limiti tecnici e vivendo la partitura come un immenso spazio in cui librarsi. La scrittura è qui ipervirtuosistica, la struttura ritmica è determinata da un graduale sfasamento metrico, secondo un procedimento già adoperato in Tierra del Fuego, quasi a voler chiudere la serie con una coerente ciclicità. In questo caso, tuttavia, il registro prediletto è quello sovracuto, e la gamma timbrica esplora le tinte più sgargianti e luminose, facendo leva sulla compresenza di campi armonici diversi, evidentemente abbinati in base alle esigenze cromatiche. Una seconda idea contrastante, basata su rapidi e leggerissimi ribattuti, esalta il ritorno della figurazione iniziale, e ad essa poi si alterna una seconda volta, prendendo inaspettatamente il sopravvento e conducendo ad una conclusione di grande suggestione, in un pulviscolare, inatteso estinguersi nel silenzio.
5. Cadenze
Le Cadenze confermano la recente propensione di Fedele a riconsiderare il pianoforte in tutte le sue potenzialità strumentali. Questa tendenza, già ampiamente esplicitata negli Studi Australi, assume qui una valenza programmatica, poiché è proprio il gesto pianistico, nella sua completezza e con tutte le implicazioni storiche ad esso connesse, ad assumere una nuova centralità poetica. Ogni Cadenza è, infatti, incentrata su un precipuo elemento che, come afferma l’Autore, “pur utilizzando un lessico volutamente molto conciso e limitato, tende altresì a proiettarsi in una dimensione percettiva in cui il gesto compositivo vorrebbe lasciare tracce e risonanze di sé nella memoria, al di là del tempo dell’ascolto”.
I suddetti “gesti” non sono altro, in realtà, che atteggiamenti tipicamente idiomatici del suonare, e in molti casi direttamente provenienti da quella “libreria” di oggetti che costituiscono il linguaggio pianistico, nella forma in cui oggi lo conosciamo. Si tratta, in sostanza, di figurazioni spesso dettate dall’ergonomia della tecnica tastieristica, o ispirate da movimenti fisici delle dita o del braccio, che ne hanno determinato la forma sonora. Quale che sia la loro origine, inoltre, ciò che più conta è che ognuno di questi gesti porta con sé un proprio bagaglio di riferimenti che generano una molteplicità di conseguenze percettive in ogni ascoltatore. Tutte le cadenze, per di più, prendono spunto da materiale già utilizzato dall’autore per il pianoforte (o altre tastiere) all’interno di precedenti partiture cameristiche o sinfoniche. Lo stesso Fedele racconta che a volte, assistendo alle prove di sue composizioni da camera, ha percepito degli input provenienti dalle parti pianistiche di quei brani: si è reso conto delle potenzialità di sviluppo che un singolo frammento lasciava intravedere. Ma l’estrapolazione di questi elementi al di fuori del loro contesto originale determina un radicale cambiamento nel risultato espressivo, dando risalto alle potenzialità intrinseche alle singole figurazioni pianistiche, ora non più funzionali ad un’integrazione con altri strumenti, bensì alla propria stessa “essenza” semantica.
Le prime tre Cadenze sono state composte nel 1993. La Cadenza I, come la Cadenza III, deriva dalla parte pianistica del Trio Imaginary Islands (1992). È costruita su bicordi, soprattutto di settima o di nona, che quindi costringono la mano ad aperture massime, con il pollice e il mignolo che percuotono i tasti in posizione obliqua, quasi orizzontale. Questo tipo di tocco, imposto dalla scrittura, determina anche la cifra timbrica del brano, caratterizzato da suoni tesi, prevalentemente in forte e fortissimo, ma non particolarmente diretti o verticali, e tuttavia instabili e inquieti, in virtù delle dissonanze degli intervalli contemplati. I vari bicordi sono alternati rapidamente in registri diversi, così da innescare un particolare tipo di vibrazione della tavola armonica, esaltata dal ritmo convulso e progressivamente stringente, culminante in una perorazione dei bicordi stessi, via via più serrati, che infine tuonano in fortissimo nel registro grave.
Ritroviamo ancora intervalli di settima e nona, ma in un clima timbrico totalmente mutato, anche nella Cadenza II, tratta dal Concerto per pianoforte e orchestra (1993). Grazie all’uso del pedale tonale e alla maggiore differenziazione dinamica degli strati contrappuntistici, le asprezze della precedente Cadenza sono qui liquefatte in sonorità al limite con il silenzio, e immerse in un ambiente armonico caldo e avvolgente. Gli accordi sono frequentemente spezzati o preceduti da acciaccature, e dialogano con un secondo elemento particolarmente caratterizzato e contrastante, costituito da una solo, suono, singolo o ribattuto, incisivo e frequentemente reiterato. Il suddetto materiale viene ripetuto e sovrapposto, in un progressivo addensamento che raggiunge il culmine nella parte centrale, per poi gradualmente, fisiologicamente dissolversi.
Anche la Cadenza III prende le mosse da bicordi di settima e nona, questa volta sotto forma di rapidissimi tremoli. Essi si articolano con sempre maggiore estensione e complessità, fino a disegnare un fluido fascio sonoro dal quale emergono suoni accentati, accennando potenziali profili melodici. La scrittura è, pertanto, simile a quella della Toccata, ma ora ben più frammentata, come se l’Autore volesse in un certo senso prendere le distanze da quel “gesto” originale e squisitamente tastieristico, ora riconsiderato da un diverso, più esterno punto di vista. I frammenti, quasi autogerminati dai tremoli iniziali, vivono di vita propria, si incontrano e si sovrappongono in agglomerati diversi, si fondono in rapidi ribattuti con un’apparente casualità, in realtà scrupolosamente vigilata dal progetto strutturale dell’Autore.
La seconda serie delle Cadenze (dalla IV alla IX) è decisamente più recente, essendo stata ultimata nel 2005. La Cadenza IV è interamente basata su una figurazione tipicamente tastieristica, già presente in Ali di Cantor (2003), costituita da rapidissime volate, prevalentemente in pianissimo, che in alcuni momenti confluiscono in rapidi trilli. La concezione del brano è fondamentalmente orizzontale e l’estrema rapidità delle biscrome tende a smussare la percezione della singola nota e l’attacco del tasto, dando l’impressione di una linea continua, flessibile e cangiante. È singolare come una simile scrittura, idiomaticamente pianistica, porti a conseguenze nettamente antipianistiche, come appunto quella di azzerare la percussività del pianoforte. Questa era, del resto, una delle più estreme utopie di molti compositori romantici, che vede qui un possibile avverarsi.
La percussività è invece completamente recuperata, se non esaltata, nella Cadenza V, derivata da Mixtim (1989), che esplora i risvolti percettivi dello staccato, e in particolare delle risonanze di accordi staccati in un determinato ambito armonico. Mentre la precedente cadenza era concepita secondo un disegno orizzontale, qui è evidente la verticalità della struttura, in virtù della chiara concezione polifonica della scrittura, e delle frequenti pause, che esaltano la percezione dell’attacco percussivo e dell’impianto ritmico. Questo è dato dalla sovrapposizione di diversi metri di ciascuna linea, pur comprendendo anche frequenti momenti omofonici: lì i rintocchi accordali, incisivi e fatali, liberati dal contorno delle altre voci, si stagnano luminosi, lasciano una scia non solo nello spazio acustico (con la risonanza della cordiera), ma anche nella coscienza auditiva dell’ascoltatore (che non potrà non pensare, almeno subliminalmente, alle innumerevoli figurazioni di accordi staccati che abitano la propria memoria sonora).
La Cadenza VI prosegue l’indagine dei risvolti percettivi dei suoni staccati, focalizzando un gesto basato su accordi ribattuti, a volte anche legati, arpeggiati o spezzati, già usato da Fedele in Chiari (1981). Anche in questa Cadenza le pause giocano un ruolo primario. Non si tratta, in tal caso, di pause intese come “spazio circostante” o “scia di risonanza”, bensì come “note senza suono”, essendo esse parte attiva delle figurazioni ritmiche incalzanti che caratterizzano la Cadenza. Questa particolare concezione ritmica della pausa (che a sua volta si ricollega a numerosi compositori, e in particolare a Stravinsky e Ligeti) viene confermata nella parte centrale del brano, in cui il rapporto tra presenza di note e di pause si inverte, come in un negativo fotografico, lasciando alle pause una frequenza ben maggiore delle note. Ma la gabbia ritmica rimane pressoché la stessa, richiedendo all’ascoltatore di saper immaginare le pulsazioni serrate anche in assenza di un beat evidente, data la presenza di numerose pause “ribattute” (a meno che l’interprete non trovi un gesto appropriato per evidenziare gli accenti all’interno delle pause o fra due pause contigue).[3]
Ancora i ribattuti (questa volta sonori!) sono il nucleo gestuale della Cadenza VII, “fibrillante”. Vari elementi: note sincopate, bicordi, accordi spezzati (provenienti da una delle due parti pianistiche di Message, 2000) vengono qui ripetuti ciascuno con una frequenza e una spaziatura diversa, dando luogo ad una sorta di contrappunto di ribattuti. Ad arricchire la struttura compositiva contribuiscono l’attenta collocazione degli accenti, delle dinamiche e, non ultimo, del pedale di risonanza (a sua volta contemplabile in questo contesto come un altro elemento “ribattuto”, con un suo metro indipendente). Anche i numerosi trilli non sono altro, a ben vedere, che il rapido ribattere di due note contigue, e in questo senso vanno qui considerati.
Il “gesto” che informa la Cadenza VIII[4] non è dinamico, bensì statico, contemplativo. È, questa, la più “Boreale” delle Cadenze, in cui la ricerca di un particolare colore, chiaro ma opaco, è l’elemento caratterizzante, e di maggior fascino. L’alchimia timbrica che sottende a tutto ciò è data dalla fusione del registro grave con quello sovracuto, con la predilezione di intervalli di quinta a distanza di ben sei ottave.
La prevalenza di dinamiche assottigliate e di note (e pause) lunghe non fa che esaltare l’incanto sonoro che ne deriva, e che sorregge la struttura del brano. Inutile, in questo contesto, cercare le pur presenti simmetrie del disegno formale. Ciò che più colpisce di questa Cadenza è l’atmosfera notturna, nel senso esplicitamente bartokiano: evocazioni di suoni lontani, indiretti eppure nettissimi; coesistenza di più fonti sonore diverse e sovrapposte con metri autonomi; un’indefinita percezione di spazio aperto, eppure sconosciuto, che avvolge le risonanze di mistero.
Completamente diversa, e, per proseguire il raffronto con gli Studi, certamente ben più “Australe”, è la Cadenza IX (derivata, come la precedente, dalla parte dell’accordeon di Capt-Action, 2004-05), che in effetti sembra quasi voler citare lo Studio Australe n. 1. Anche qui, infatti, ritroviamo le rapidissime figurazioni per gradi congiunti, di lunghezza variabile e sovrapposte asimmetricamente, così da generare stimolanti sfasamenti metrici. Sono altresì presenti citazioni dei “gesti” protagonisti nelle precedenti Cadenze: accordi spezzati, note ribattute, trilli, in un insieme estremamente organico e compatto, che racchiude molteplici gesti in un unico “gesto di gesti”.
6. Il pianoforte nei brani cameristici e sinfonici
Il pianoforte è spesso presente anche nei brani cameristici di Fedele (con un particolare rilievo nelle Correnti Alternate, 1997), ed è protagonista di due importanti composizioni sinfoniche: il Concerto per pianoforte e orchestra (1993) e De li suo soli et infiniti universi (2001) per due pianoforti e tre gruppi orchestrali. Laddove la musica per pianoforte solo poneva il rischio di limitare l’estensione spaziale e la pluralità delle direzioni in cui la poetica di Fedele deve necessariamente espandersi, nella musica da camera (e ancor più nei Concerti per pianoforte e orchestra) l’esigenza di una peculiare definizione della relazione tra diversi oggetti sonori trova una più facile attuazione, in cui finalmente il pianoforte può rappresentare un’entità unitaria – solistica appunto – senza doversi scindere al suo interno in una complessa pluralità di intenti. La presenza di numerosi, indipendenti fonti sonore, con una più ampia libreria di timbri, consentono a Fedele di raggiungere risultati eccellenti, anche per la drammatizzazione dei gruppi tematici e la caratterizzazione timbrica dello svolgimento formale. L’analisi dei complessi procedimenti multidirezionali che informano il progetto strutturale dei Concerti di Fedele consente di cogliere l’originalità della sua cifra stilistica, e di riconsiderare anche le musiche pianistiche come dei microcosmi in cui gli stessi principi albergano, pur in una più ridotta evidenza sonora.
A suo agio, dunque, tanto nelle forme brevi (e lo abbiamo visto negli Studi) quanto in quelle più estese, Fedele riesce sempre a sfruttare la potenzialità acustica, espressiva ed evocativa del pianoforte in maniera naturale e funzionale alle esigenze formali, così da raggiungere un raro connubio tra logica e creatività, tra fisiologia e incanto. Il suo linguaggio proietta il pianoforte (e tutto ciò che esso rappresenta) in una galassia dove antico e moderno, tradizione e sperimentazione, natura e storia si incontrano.
Poeticamente.
Roberto Prosseda
[1] Cesare Fertonani: Gli archetipi e la memoria – Una conversazione con Ivan Fedele, libretto del CD Stradivarius 33650, 2003.
[2] Per ulteriori dettagli su Two Moons e sugli altri brani elettroacustici di Fedele si rimanda al capitolo ad essi dedicato, a cura di Marco Ligabue.
[3] Un ribattuto utopistico e silenzioso fu concepito già da Robert Schumann nelle sue Variazioni Abegg op. 1, nella battuta 197, in cui il sol, legato al precedente, risuona “per sottrazione”, al momento del rilascio delle altre note dell’accordo. Lo stesso sol presenta anche un accento sulla sua seconda semibreve legata. Cfr. Charles Rosen, La Generazione Romantica, Capitolo 1.
[4] Questa Cadenza è altresì pubblicata con il titolo di Antipodes nell’antologia Piano Project (Universal, UE 33662).