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Sulla performance musicale

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Martin Berkofsky e le motivazioni del far musica (2/2016)

Quando incontro studenti di pianoforte in occasione di master class o audizioni, la prima domanda che pongo loro è: “Perché tu suoni?”. Mi interessa, cioè, sapere quale è la loro motivazione profonda, o se hanno un obiettivo a lungo termine che li sprona a trascorrere tante ore al giorno nello studio di uno strumento. Nella maggior parte dei casi, a questa domanda seguono reazioni di imbarazzo o di stupore. Chiedere “Perché tu suoni?” crea disagio. Il motivo più evidente di questo disagio è spesso legato al prendere atto che si fa qualcosa da tanti anni senza essersi mai chiesti realmente il perché. Ciò non vuol dire che non vi sia un perché, ma, piuttosto, che spesso la routine dello studio quotidiano e della vita scolastica o professionale rischia di offuscare le nostre motivazioni più profonde.

C’è chi risponde: “Suono perché ho iniziato sin da piccolo e ormai voglio arrivare al diploma”. Oppure: “Suono perché voglio diventare un concertista ed essere famoso e ricco”. Motivazioni comprensibili, ma forse legate più ad una presa d’atto di ciò che gli altri (genitori, insegnanti, amici) si aspettano da noi, che non a ciò che noi realmente sentiamo. Spesso si tende a confondere un obiettivo a medio o lungo termine, come il diploma del conservatorio o la vittoria di un importante concorso internazionale, con la motivazione profonda, che va, evidentemente, cercata altrove.

Del resto, dedicare una vita alla musica è una scelta radicale e chiaramente dettata da una forte passione: non si tratta di una strada che offra particolari garanzie di successo professionale o di arricchimento economico, e va da sé che ci deve pur essere una forte spinta interiore. A molti piace suonare perché tramite la musica riescono a vivere più intensamente, o perché sviluppano una sensibilità di ascolto e di sguardo interiore che impreziosisce ogni giornata, o perché la disciplina di uno studio costante e metodico aiuta a raggiungere un migliore equilibrio interiore. Tutte motivazioni condivisibili e legate al proprio vissuto e alla propria sensibilità.

Vorrei quindi porre l’accento sull’importanza della consapevolezza delle proprie motivazioni: solo mettendo a fuoco i propri obiettivi e le proprie aspirazioni profonde, e non confondendole con le aspettative che gli altri possono avere su di noi, riusciremo a trovare una via sincera e proficua per trovare, nella musica, le risposte alle nostre domande.

Mi piace in questo contesto ricordare il grande pianista Martin Berkofsky (1943 – 2013), artista di eccezionale talento, intensità e spiritualità. La sua visione filantropica del far musica come mezzo potente e infallibile per condividere bellezza e per superare momenti dolorosi è ben sintetizzata dalle sue stesse parole: “Il ruolo dell’interprete è di donare bellezza e ispirazione agli altri, e di farlo con la più onesta e umile ricerca di questi valori in noi stessi, nella volontà di creare un mondo migliore. La musica cura. Porta la pace allo spirito, gioia al cuore, conforto al corpo fisico. Trasforma l’umanità in fraternità. Incoraggia a lottare con generosità per gli altri, per alti ideali. A dedicare se stessi e il nostro lavoro per quel che nobilita lo spirito umano, a superare e risolvere, anche le malattie e i conflitti più dolorosi, e tiene alto il piano dei valori per i quali ci impegniamo in prima persona”.

 

Roberto Prosseda