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La produzione pianistica di Goffredo Petrassi (2003)

Premessa
Il pianoforte, com'è noto, è uno degli strumenti più storicizzati, essendo intimamente legato ad una moltitudine di retaggi culturali appartenenti alla tradizione musicale dei secoli precedenti. Fino ai primi anni del Novecento questo aspetto consentiva agli autori di innestarsi naturalmente in un contesto già noto ed integrato nella cultura degli ascoltatori, ma non è più stato così nei decenni successivi. Con l’avvento della dodecafonia, dello strutturalismo e delle avanguardie, il pianoforte, implicito rappresentante del ‘passato’, è stato da molti messo da parte, oppure del tutto snaturato con la ricerca di nuove potenzialità timbriche e comunicative. Alla luce di questo problema, la produzione pianistica di Petrassi, pur se limitata a meno di un’ora di musica, assume un’imprescindibile importanza storica. La sua scrittura, infatti, ha saputo evolversi in rapporto con le innovazioni dei linguaggi contemporanei, pur mantenendo costantemente un esemplare atteggiamento di fiducia nei mezzi espressivi del pianoforte, che proprio grazie alla sua storicizzazione può assumere notevoli potenzialità evocative e citazionistiche.

1. La formazione
Il rapporto di Petrassi con il pianoforte risale al periodo in cui egli, quindicenne, iniziò a lavorare come commesso in un importante negozio di musica romano. Qui, in particolare negli anni successivi, quando questo fu rilevato dalla FIPT (Fabbriche Italiane di Pianoforti, Torino) e trasferito in via del Corso, Petrassi ebbe modo di incontrare molte personalità di spicco dell’ambiente artistico italiano (tra cui Alfredo Casella) e di leggere alcune delle partiture in vendita, come lui stesso racconta:

Nel negozio avevo la disponibilità del pianoforte, che avevo preso a suonare da puro dilettante, senza pensare minimamente ad esercitare la professione di musicista. Un giorno mi imbattei nelle Arabesques di Debussy e me le studiai. Passò di là un insegnante di pianoforte del conservatorio che era Alessandro Bustini - a quell’epoca professore di pianoforte, non ancora di composizione -, ascoltò questo commesso nel retrobottega, suonava le Arabesques di Debussy, si incuriosì e mi disse: «Che cosa fai? Beh, allora te le diteggio, così le puoi studiare meglio». Una settimana dopo mi riportò le Arabesques con la diteggiatura, io le studiai, lui ripassò ancora e alla fine disse: «Insomma, ti darò lezione, vieni da me». Così cominciò con le lezioni, naturalmente una volta alla settimana, poiché era l’unico mio giorno libero.

Petrassi ebbe dunque familiarità con la tastiera fin dalla giovinezza, perciò non stupisce che le sue prime composizioni impieghino sovente il pianoforte, spesso come veicolo per rievocare (più o meno inconsciamente) fantasmi stilistici del passato.

2. La Partita.
È questo il caso della Partita del 1926, il primo brano petrassiano pubblicato (per le edizioni De Santis nella collana Dorica, diretta da Vincenzo Di Donato, allora suo insegnante d’armonia). Questa Partita, pur essendo un lavoro giovanile che oggi suona un po’ naïf se confrontato con le opere successive, si rivela comunque di notevole interesse, poiché consente di conoscere le influenze stilistiche che caratterizzarono la prima formazione musicale di Petrassi. Divisa in quattro movimenti (Preludio, Aria, Gavotta, Giga), presenta una singolare commistione di stili e linguaggi.
Il Preludio, ad esempio, richiama lo sfarzo timbrico delle ouvertures di Lulli, con scale veloci e brillanti, a cui seguono arpeggi spezzati di grande effetto sonoro. Interessante anche la parte centrale, che rievoca direttamente, senza filtri e senza alcuna volontà ironica, il lirismo tipico degli esempi chopiniani, determinando uno scarto stilistico di notevole effetto.
Anche nel secondo movimento, l’Aria, permane un tipo di cantabilità squisitamente romantica, pur con un certo influsso della tradizione popolare dei canti dell’area romana
La Gavotta (grottesco) utilizza un linguaggio più moderno, che testimonia come già a ventidue anni Petrassi fosse aggiornato almeno su alcune tendenze contemporanee. In questo caso chiama in causa il neoclassicismo di Stravinsky, specie nell’articolazione, basata sull’alternanza tra legato e staccato, e nell’uso di dissonanze non funzionale al discorso armonico, ma determinato da un intento grottesco, esplicitato tra parentesi nel titolo.
La Giga è un tipico esempio di virtuosismo tastieristico di stampo scarlattiano, che presenta un particolare estro strumentale: se da un lato essa ancora mantiene una fortissima dipendenza dai modelli settecenteschi, dall’altro già lascia presagire quella peculiare vitalità motoria che ritroveremo in successivi lavori dell’autore.
Petrassi fu sempre legato a questa Partita, tanto da ricavarne alcuni temi per la sua più celebre e complessa Partita per orchestra, brano che lo proiettò con grande successo nel panorama musicale internazionale.

3. La produzione pianistica degli anni ‘30
Sì è detto come nella Partita vi sia una particolare apertura verso stili diversi, anche lontani, adottati senza alcuna sorta di filtro linguistico; successivamente Petrassi, che nel frattempo aveva intrapreso lo studio dell’organo e della composizione in conservatorio con Alessandro Bustini e Vincenzo di Donato, inizia a compiere un lavoro di selezione del materiale e degli elementi espressivi, per definire un linguaggio sempre più coerente con i valori del rigore e della disciplina che costituiscono la base etica della sua figura artistica e umana.
Già nella Siciliana e Marcetta del 1930, breve pezzo per pianoforte a quattro mani, Petrassi individua un ambito stilistico più delimitato e definito, sebbene ancora non del tutto personale. Anzi, si tratta di un vero e proprio omaggio alla musica di Alfredo Casella, la cui Siciliana dagli 11 Pezzi Infantili viene citata quasi letteralmente. Anche la Marcetta mantiene quel carattere tra l’automatico e il militaresco che ricorre spesso nel linguaggio caselliano. Come nota Rattalino, però, la fine della Marcetta, con un imprevisto accelerando, si distanzia dal modello, per lasciar presagire una posteriore, graduale individualizzazione stilistica.

3.1. La Toccata
Con la Toccata, del 1933, siamo già di fronte ad uno dei capolavori pianistici del compositore. Scritta sulla scia del successo internazionale della Partita per orchestra (composta nel 1932 e diretta l’anno seguente dallo stesso Casella ad Amsterdam in occasione del conferimento a Petrassi del premio della SIMC), essa rivela come Petrassi sviluppi in questi anni uno stile grandioso e solenne, in parte ispirato alla maestosità dei lavori del Seicento romano, ragione che ha ispirato Gianandrea Gavazzeni a definire questa sua tendenza stilistica ‘Barocco Romano’. Per la verità, la vastità delle formule espressive rimane ancora notevole, tanto da consentire a Petrassi di utilizzare di volta in volta riferimenti stilistici diversi, in base alle esigenze del momento. In particolare, nella Toccata Petrassi si riallaccia esplicitamente, fin dal titolo, agli esempi tastieristici frescobaldiani, mantenendone la freschezza improvvisativa da un lato, e la complessità polifonica dall’altro. A partire da questo brano, infatti, Petrassi adotterà una scrittura di alta fattura contrappuntistica, che manterrà, pur con le debite varianti, in tutte le successive composizioni pianistiche. L’inizio della Toccata è un esempio di purissima scrittura polifonica, dove il soggetto viene dapprima esposto da una sola voce, e successivamente ripreso in stile fugato dalle restanti tre voci. Il particolare misticismo di questa soluzione richiama alcune fughe che Shostakovich avrebbe composto nel 1949 all’interno dei 24 Preludi e Fughe. Seguendo lo svolgimento della Toccata petrassiana, suscita stupore l’accumulo di tensione che, dopo l’inizio fugato, conduce a due sospensioni dell’intreccio contrappuntistico (battute 18 e 20). Da qui hanno origine alcuni spunti cadenzali che portano gradualmente ad una ripetizione del soggetto iniziale in ottave nel registro grave (battuta 21 e seg.), con un sapore timbrico di chiara ascendenza organistica (proprio nel 1933 Petrassi conseguì anche il diploma di organo). L’ispessimento della scrittura, che sfrutta ora appieno le potenzialità dinamiche del pianoforte, permane nella sezione seguente, Più lento (solenne), in cui il soggetto iniziale viene riproposto a livelli dinamici particolarmente elevati e grandiosi. Dal successivo Presto inizia la seconda parte del brano, più orientata secondo il senso novecentesco del genere toccatistico. Negli anni ‘30, del resto, Petrassi non poteva non considerare gli esempi omonimi, di pochi anni addietro, nella produzione pianistica di Ravel, Debussy e Prokofiev. Non a caso, egli utilizza in questa sezione alcuni elementi di particolare slancio motorio e percussivo che richiamano i riferimenti suddetti, in particolare la Toccata di Prokofiev. La scrittura pianistica di Petrassi presenta momenti di alto virtuosismo, specie nei passaggi di accordi e note doppie per quarta, toccando risultati sonori affatto vicini alle conquiste del pianismo di Prokofiev. Proprio in coincidenza con la sezione aurea cade il punto culminante della Toccata, in cui ad una perorazione in ff di ottave nel registro acuto si aggiungono altre ottave, affidate alla mano sinistra, che ripropongono il soggetto iniziale. Il vero e proprio climax ha luogo alla conclusione del lungo moto ritmico ostinato, che sfocia in accordi ripieni, dalla straordinaria forza espressiva. Dopo quest’episodio la tensione non si esaurisce ancora del tutto, ed il moto ostinato riprende con sonorità più lontane e gravi, per ricondurre ad una magica ripresa del fugato iniziale in un’atmosfera ancora più astratta e contemplativa, che dona una peculiare poesia alla conclusione del brano.
Nel 1933, oltre alla Toccata, Petrassi scrisse due brani da camera in cui il pianoforte ha un ruolo importante: Preludio, Aria e Finale per violoncello e pianoforte e Introduzione e Allegro per violino e pianoforte (subito dopo trascritto nella versione per violino e orchestra, premiata dalla SIMC ed eseguita a Praga nel 1935, sempre sotto la direzione di Alfredo Casella). Anche in questi due brani la scrittura pianistica è particolarmente impegnativa e predilige tinte scure e aspre, con una trama contrappuntistica di particolare fascino e spessore.

3.2. Il Concerto per pianoforte e orchestra
Le asprezze timbriche ed il virtuosismo sono ancor più estremizzati nel Concerto per pianoforte e orchestra, scritto tra il 1936 ed il 1939 ed eseguito in prima assoluta da Walter Gieseking. Si tratta di un brano poco noto, che lo stesso Petrassi ha praticamente rinnegato, forse per la forte somiglianza con alcune partiture di Prokofiev e soprattutto di Stravinsky (in particolare il Capriccio per pianoforte e orchestra del 1928-29). Strutturato in tre movimenti (Non molto mosso ed energico, Arietta con Variazioni, Rondò), questo Concerto è sostanzialmente un brano neoclassico, che consente al solista di sfoggiare tutto il proprio bagaglio tecnico in un pianismo prevalentemente percussivo e motorio.
La forma del primo movimento è alquanto tradizionale, basata su due temi di carattere opposto, il secondo dei quali appare in una tonalità (si minore) ben lontana da quella d’impianto (sol minore). Il trattamento dell’armonia rimane comunque ancorato, pur con notevole creatività, ad una concezione polarizzata della tonalità. Non mancano suggestivi effetti timbrici, come i bisbigli nel registro grave che precedono l’ingresso del secondo tema, e la conclusione, affidata antiretoricamente a sonorità in pp e staccate.
Il secondo movimento presenta espliciti riferimenti al neoclassicismo stravinskiano, specie quello del secondo tempo della Sonata per pianoforte. L’Arietta consiste in una melodia cantabile in si bemolle maggiore in ritmo ternario, eseguita dal solo pianoforte. La scrittura è alquanto tradizionale: alla mano destra è affidato il canto, ornato con abbondanti decorazioni rapide e leggere, e alla sinistra l’accompagnamento, con una scansione molto lenta e regolare, pur nell’ambiguità tra ritmo binario e ternario. Le quattro Variazioni che seguono ne rielaborano il materiale in maniera molto libera, tanto da renderlo quasi irriconoscibile. Il pianoforte assume un ruolo sempre più decorativo (in particolar modo nella terza, dove abbondano gli episodi cadenzali), mentre l’orchestra generalmente conduce lo svolgimento della frase, pur lasciando spazio al solista nei vari momenti di carattere recitativo. Molto affascinante il ritorno dell’Arietta nella sua veste iniziale, con l’aggiunta di una discreta fascia sonora in p realizzata dagli archi.
Il terzo movimento è un Andantino mosso, ma tranquillo in forma di rondò. L’elemento tematico iniziale (A) è costituito da una linea cromatica discendente di quattro note lunghe. Questo, dopo una breve introduzione dell’orchestra, viene esposto dal pianoforte, in ottave ff. Ritornerà secondo la consueta struttura del rondò (ABACABA), ogni volta affidato ad una diversa strumentazione (clarinetti, poi trombe, poi tutti gli ottoni). Il pianoforte è utilizzato prevalentemente in chiave percussiva e dà una notevole propulsione motoria all’insieme. L’abbondante presenza di ottave sciolte ed alternate, di rapide successioni accordali e di passaggi veloci per moto parallelo si inscrive nella tradizione tardo-ottocentesca del concerto inteso come sfoggio virtuosistico del solista, pur in un’ambientazione armonica certamente più moderna.
I caratteri di maggior interesse di questa controversa opera risiedono probabilmente nel particolare tono scuro che Petrassi sa individuare, e che risalta nella sua peculiarità specie in rapporto con la precedente Toccata. Appare così evidente come Petrassi raggiunga in questo Concerto i risultati più interessanti del proprio virtuosismo pianistico, almeno nel senso tradizionale. Ma, guardando l’opera a posteriori, si capisce che dagli anni ‘40 in avanti egli non sarà più interessato a considerare il pianoforte nell’accezione virtuosistica e spettacolare, tanto che nelle successive Invenzioni e negli altri brani tastieristici posteriori la sua scrittura si farà sempre più scarna e cristallizzata, sfruttando fra le risorse strumentali solo quelle che meglio si prestano ad esprimere la sua rinnovata poetica, secondo un approccio non troppo dissimile da quello che Luigi Dallapiccola ebbe con il pianoforte.

4. La produzione pianistica degli anni ‘40
Agli anni ‘40 risalgono gli ultimi importanti lavori pianistici di Petrassi, se si escludono la Bagatella e Le petit chat, che non sono altro che rielaborazioni di materiale preesistente (e risalente appunto a questo periodo). La Piccola Invenzione, pezzo d’occasione composto nel 1941, è un brevissimo contrappunto a due voci che si riallaccia esplicitamente ai modelli stravinskiani. L’importanza di questa pagina consiste nella scrittura contrappuntistica: con essa Petrassi inaugura un tipo di composizione polifonica ancor più lineare e trasparente, che svilupperà ampiamente nelle successive 8 Invenzioni del 1944. La Piccola Invenzione, come accennato, sarà ripresa e ampliata notevolmente nella Bagatella del 1976, che ha una lunghezza ben maggiore.
Un altro brano d’occasione, scritto un anno dopo, è il Divertimento scarlattiano, per dritto e per rovescio, dedicato a Guido Maria Gatti. Si tratta di un gioco contrappuntistico sulla celebre Sonata K30 di Scarlatti, detta «La Fuga del Gatto» per il particolare disegno tematico. Anche questo brano sarà poi rielaborato ed espanso nel 1976 in un brano non a caso intitolato Le petit chat.

4.1. Le Invenzioni
Il più importante lavoro pianistico di Petrassi, che segna un’importante svolta nel suo approccio al pianoforte, è costituito dalle 8 Invenzioni, composte tra il 1942 e il 1944. Come già osservato a proposito del Concerto, Petrassi negli anni ‘40 si rende conto di non avere più bisogno di tutte le potenzialità sonore e dinamiche del pianoforte, probabilmente anche per via dei noti problemi di storicizzazione e per i conseguenti pericoli d’involontario epigonismo stilistico. Questa è probabilmente la motivazione che giustifica la sua scelta di comporre molto meno per questo strumento, e di dedicarsi invece ad organici più desueti e meno scandagliati nelle potenzialità timbriche: gli ottoni, la chitarra, alcuni particolari ensembles di fiati ed archi. Le 8 Invenzioni sono pertanto l’ultimo suo lavoro importante per il pianoforte, e testimoniano il cambiamento del suo approccio. In questi brani, infatti, Petrassi usa una scrittura molto più prosciugata e scarna, quasi astratta. S’intuisce che questa musica non è stata concepita al pianoforte, né esclusivamente per il pianoforte. Anzi, fa sì che il pianoforte invochi di volta in volta sonorità appartenenti ad altri strumenti o ad altri mondi: rumori della natura, tamburi, canti di uccelli, e, naturalmente, flauti, clarinetti, ottoni. Il pianoforte diventa così, per usare un termine caro a Piero Rattalino, un ‘metapianoforte’. D’altro canto, Petrassi riesce nello stesso tempo a far rivivere la tradizione tastieristica del Settecento, questa volta (differentemente dai lavori giovanili) in piena coscienza, e quindi con notevole ironia e nostalgia. Le Invenzioni petrassiane presentano una scrittura meno ‘pianistica’ rispetto ai brani precedenti, ma ciò non va inteso in senso negativo: anzi, si tratta di una chiara presa di coscienza artistica. Lo stesso Petrassi è rimasto molto legato alle sue Invenzioni, e ha dichiarato che esse contengono un bagaglio di spunti espressivi utilizzati in molte delle successive composizioni. Meritano, pertanto, di essere esplorate una ad una.
La prima Invenzione, Presto volante, rievoca esplicitamente i brani clavicembalistici del Settecento, e contiene addirittura una citazione dal Preludio in do minore del Primo Volume del Clavicembalo Ben Temperato di Bach. Oltre che a Bach, però, il pensiero corre a Domenico Scarlatti, per il particolare estro strumentale, esaltato dalle rapide quartine di crome che attraversano la tastiera in leggerissime scale (esempio 10), e dalle particolari connotazioni ritmiche e articolatorie (si vedano le semiminime staccate con cui termina il brano). L’ironia e il disincanto di Petrassi, consapevole della distanza da quel mondo che viene rievocato con questa musica, emerge nella parte centrale, con un ritmo più lento e sincopato. Qui, grazie allo spostamento delle quartine nel registro grave, ed all’aggiunta di note tenute (quasi come pedali armonici), la sonorità diventa molto più personale e moderna, quasi a ricordarci che l’inizio così genuinamente scarlattiano non apparteneva alla realtà, ma soltanto alla memoria.
La seconda Invenzione presenta una maggiore molteplicità di stili ed una forma più varia ed articolata. Dopo un inizio molto espressivo e cantabile, compare un tema dal carattere più ritmico e neoclassico, ancora con figurazioni appartenenti all’ambito stilistico del repertorio tastieristico settecentesco. Il trattamento dell’armonia utilizza numerosi accordi alterati e dissonanti, dando un colore molto più cromatico agli elementi tematici di origine classica, così da farli apparire quasi deformati. Ancora una volta, quindi, Petrassi gioca con la storia e con la percezione dell’ascoltatore, il quale proprio nell’accostamento di materiale antico ed elaborazioni moderne troverà il maggior fascino del brano
La terza Invenzione è invece molto più omogenea e compatta, e presenta una scrittura particolarmente impegnativa e spettacolare. La quasi totalità del brano è infatti basata su un ritmo uniforme e rapidissimo di 5/8, ed il carattere fuggevole e sguisciante di questo pezzo è esaltato dalla strumentazione, che prescrive di eseguire la stessa linea (sinuosa e legatissima) con le due mani parallele, a ben quattro ottave di distanza. Questo tipo di scrittura, ripresa (sempre in 5/8) da Dallapiccola nel secondo dei Tre episodi dal balletto Marsia, ha vicine origini nella Sonata di Stravinsky, ma, andando a ritroso, si trova qualcosa di simile nel quarto movimento della celebre Sonata in si bemolle minore di Chopin (anche se la distanza tra le due mani è in questo caso di una sola ottava). Il suddetto moto ostinato si interrompe solo in poche occasioni, con impavidi accordi secchi e staccati, che, specie nella conclusione (più sospensiva che perentoria), acuiscono la tensione e il mistero generati da questa composizione.
La quarta Invenzione, in forma ABA, ripropone l’atmosfera contemplativa di altri momenti petrassiani, in un ambito timbrico ancor più definito e ricercato. Nell’inizio ritroviamo la scrittura per mani parallele molto distanziate, ma questa volta in un tempo lento e ben scandito, che crea un carattere di misteriosa attesa. Il tema seguente, affidato al registro acuto, determina un suggestivo contrasto timbrico, e conduce verso la parte centrale (B), un episodio dal carattere di danza in ritmo ternario, quasi un walzer. Un walzer non certo spensierato, ma di tono scuro, un po’ macabro, per via delle dissonanze tra accompagnamento e melodia, e per l’impasto sonoro con la predominanza della zona grave del pianoforte. Il ritorno del tema iniziale assume ora un carattere più sognante ed etereo, quasi surreale, con ripetute insistenze su determinati suoni ribattuti. Molto caratteristica ed efficace la fine del pezzo, in cui vengono evocati lontani suoni di percussioni, secondo un’estetica derivata dalla Suite bartokiana All’aria aperta.
La quinta Invenzione rimane in un ambito contemplativo e statico, pur con colori armonici ben diversi, di tinta molto più limpida e stellare. Ai cromatismi delle precedenti Invenzioni qui subentra l’uso della modalità, anzi, in questo caso, della polimodalità, visto che l’autore sovrappone due o tre modi differenti nella stessa frase. Compaiono spesso, specie all’inizio, triadi perfette, sia maggiori che minori, le quali hanno però perso la loro funzione armonica, e, come accade nella musica di Debussy, assumono una finalità prettamente coloristica. Anche questa Invenzione, come la precedente, ha un carattere squisitamente notturno: ma non più una notte nebbiosa e misteriosa, bensì calma, silente e immersa in rumori naturali, come flauti di Pan e canti di uccelli. Ciò è particolarmente evidente nella sezione centrale di carattere cadenzale, in cui alla mano destra sono affidate figurazioni ornamentali rapide e fluide, che richiamano esplicitamente moduli espressivi tipici dell’esecuzione flautistica. Il contrappunto è di altissima fattura, e valorizza le sfaccettature espressive di ogni modo melodico utilizzato.
La sesta Invenzione è costituita da un vero e proprio corale a quattro parti, in cui la polifonia (un fugato a due soggetti) assolve ad una funzione poetica e strutturale. Anche qui Petrassi fa uso di armonie modaleggianti, avvolte in un alone timbrico di ascendenza raveliana (l’inizio morbido, malinconico e disincantato ricorda la celebre Pavane pour une infante défunte). La scrittura è astratta e decisamente non pianistica: anzi, il pianoforte è solo uno dei tanti possibili organici a cui questa musica poteva essere destinata. Essa suonerebbe altrettanto bene, ad esempio, con un quartetto d’archi, o, ovviamente, con un coro a quattro voci miste.
La settima Invenzione mantiene un contrappunto a tre parti sempre molto rigoroso e lineare. Il ritmo ternario di 9/8 in questo caso non è sfruttato per andamenti danzanti, ma per ottenere una particolare fluidità discorsiva, pur in un tempo moderato ed in un ambito espressivo di profonda calma interiore. Particolarmente suggestivi i momenti di interruzione del flusso di terzine, in cui risuonano solitari lontani rintocchi di tamburi, ottenuti con bicordi di quinta nel registro grave della tastiera. Come spesso accade nella musica petrassiana degli anni ‘40, la tonalità è latente, ma mai del tutto definita. Pur con una polarizzazione ben chiara (specie all’inizio e alla fine) ed ancorata all’ambito armonico del si minore, le numerose presenze modali danno un tono insieme arcaico e moderno, che sostanzialmente rappresenta l’elemento stilistico più caratteristico ed individuale delle Invenzioni.
L’ultima Invenzione, l’ottava, presenta una singolare commistione di nostalgia ed umorismo, velata di sottile ironia. L’indicazione di andamento Allegretto e grazioso contrasta, infatti, con le frequenti dissonanze, inserite peraltro in un fraseggio e in un impianto ritmico del tutto classico. Neoclassicismo, dunque, ma della specie più raffinata e suggestiva, secondo un approccio disincantato e latentemente sarcastico che ritroviamo, con le dovute differenze, in varie composizioni di Shostakovich e Prokofiev (e, in misura minore, di Stravinsky). La continua alternanza di legato e staccato, i marcati contrasti nell’articolazione e nelle dinamiche, sempre in una scrittura polifonica di notevole complessità, fanno di questa Invenzione una di quelle più riuscite e comunicative, che sintetizzano la poetica di Petrassi ed il suo mutato rapporto con il pianoforte. Le battute conclusive, con il loro colore nostalgico e sfumato che adombra il regolare basso albertino, possono costituire una preziosa chiave di lettura del suo atteggiamento verso la tastiera: con la profonda, malinconica consapevolezza di non poter più credere realmente in un prezioso patrimonio che appartiene ormai solo al nostro passato, e può essere rievocato solo tra virgolette, nel sogno o nella memoria.

5. Gli ultimi brani pianistici di Petrassi
Secondo questo approccio, Petrassi tornerà a comporre per il pianoforte solo altre tre volte, sempre per brani di ridotta ampiezza, e determinati da occasioni contingenti. Nel primo caso, quello della Petite pièce del 1950, l’opportunità è data dalla prima comunione di Marcello Panni, di cui Petrassi era il padrino. Uno speciale dono, dunque, che anche nella scrittura (solo apparentemente) semplice e nel carattere spensierato e un po’ naïf riflette il rapporto con il destinatario ispiratore. Il neoclassicismo nettamente evidente in questo brano ha una funzione non solo stilistica, ma soprattutto espressiva: serve, in sostanza, a meglio rievocare una serie di nostalgie e ricordi legati al passato, ad immagini e suoni dell’infanzia, che possono rivivere solo con una cosciente citazione, o autocitazione.
In questo contesto si spiega il titolo del dittico del 1976 Oh les beaux jours!, che raccoglie due precedenti composizioni degli anni ‘40, Piccola Invenzione e Divertimento Scarlattiano, qui notevolmente ampliate e rielaborate. I ‘bei giorni’ sono, naturalmente, quelli della giovinezza, in cui era ancora possibile sperimentare stili diversi e passati in una sana, serena spontaneità, senza essere limitati da dubbi d’ordine storico ed estetico. Il Petrassi maturo può, invece, tornare al pianoforte solo nella forma di un ricordo del (suo) passato, in un cosciente neoclassicismo al quadrato, secondo un procedimento estetico che riveste comunque una notevole importanza storica, e che trova dei precedenti nell’approccio pianistico rossiniano dei Péchées de Vieillesse. Come il vecchio Rossini, anche Petrassi guarda ora al pianoforte ed al suo mondo con nostalgia e disincanto, non senza un certo aristocratico distacco.
Le figurazioni ornamentali (anche sovraccariche, esplicitamente fini a se stesse) della Bagatella assumono così un sapore cristallizzato e depauperato del loro naturale habitat espressivo. Accostate l’una all’altra come in un nonsense di Toti Scialoia (non a caso amico di Petrassi, ed autore del testo di Morte nell’Aria), o come in un romanzo di Joyce, esse hanno una funzione prettamente estraniante e decontestualizzante, per spostare il centro percettivo dal nucleo della struttura musicale alla superficie vacua dell’ornamento: il quale così, paradossalmente, diventa, da superflua decorazione, la chiave poetica del brano, tanto che l’ultima pagina è costituita esclusivamente da ornamenti che hanno preso completamente il posto del materiale tematico iniziale.
Un discorso simile può essere fatto a proposito di Le Petit Chat (Miró). In questo caso il materiale di partenza è triplice: lo stesso Divertimento Scarlattiano era già basato su una citazione della celebre Sonata K 30 di Domenico Scarlatti, conosciuta come ‘La fuga del gatto’. Petrassi, inoltre, trae ispirazione dall’omonimo disegno che possiede nella propria collezione, in cui Miró raffigura un gatto, evidenziandone la mobilità e l’imprevedibilità del comportamento. E certamente il gatto, con le sue continue accelerazioni, con gli improvvisi scatti e cambi di direzione, alternati ad indugianti passi felpati, è perfettamente, quasi onomatopeicamente, rievocato in questa rivisitazione petrassiana. Il tema scarlattiano diventa quindi un punto di partenza per riproporre una serie di luoghi comuni della tecnica tastieristica dal Settecento al Novecento, sempre con un approccio decontestualizzante e con un conseguente prosciugamento dell’originale funzione significante. Ne deriva una musica certamente nuova ed enigmatica, di assoluta difficoltà esecutiva (in virtù della separazione tra formula tecnica e disposizione fisica della mano sulla tastiera), che certamente mantiene un insolito fascino poetico, perfettamente in equilibrio tra nostalgia ed umorismo, tra passatismo e modernità.
Proprio questi ultimi brani consentono di capire la fondamentale importanza storica della posizione estetica di Petrassi, autore che ha saputo essere acutissimo ed equilibrato interprete del proprio tempo, cogliendone profeticamente gli aspetti più significativi, ed elevandone il valore con la sua opera di altissimo artigianato poetico. A proposito del suo rapporto con il pianoforte, va inoltre sottolineato che la sua esperienza è stata di profonda influenza per alcuni compositori delle generazioni successive, tra cui Aldo Clementi , che hanno approfondito le potenzialità di un trattamento ‘metapianistico’ della tastiera, sintetizzando la lucidità e la purezza del contrappunto petrassiano in una dimensione ancor più astratta e radicale.

 

Roberto Prosseda