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Aldo Clementi's piano works (published in Contemporary Music Review, 1/2012)

I brani per pianoforte di Aldo Clementi a partire dal 1970 (anno in cui inizia la sua “fase diatonica”) sono accomunati da un costante e rigoroso uso del contrappunto e dal frequente ricorso a modelli tematici preesistenti, innestati peraltro in un contesto semantico e strutturale affatto originale.

B.A.C.H. (1970) è interamente costruito su frammenti derivati dalla Fantasia BWV 904 in do minore di Bach, della quale sono utilizzate le scale ascendenti presenti nell'originale bachiano. In B.A.C.H. tali scale (con tre diverse disposizioni intervallari) sono disposte in tre diversi registri della tastiera, e vanno eseguite ciascuna con una diversa dinamica. Sovrapponendole in modo sfalsato e non uniforme, Clementi costruisce un particolare contrappunto, talmente rapido e pulviscolare da costituire un flusso sonoro indistinto (continuum) da cui emergono di tanto in tanto delle note accentate corrispondenti alle quattro note del criptogramma sul nome Bach (si bemolle, la do, si). Anche queste quattro note sono peraltro derivate dalla Fantasia BWV 904, e in particolare dalla voce superiore degli accordi iniziali (do - do - si, si b - si b - la). Degli stessi accordi, Clementi riporta anche le voci interne, presenti in forma di note tenute nel registro acuto. B.A.C.H. è un brano di importanza storica, poiché costituisce il primo esempio di continuum basato su frammenti diatonici, inaugurando così una tecnica compositiva che l'autore ha continuato ad usare fino ad oggi. Il brano può essere ripetuto fino all'infinito, e comunque non meno di tre volte (sette volte nella presente esecuzione). Si innesca così un affascinante gioco di illusioni spaziali e temporali. La continua ascesa dei singoli frammenti suscita, infatti, l'impressione di una scala senza fine; il reiterarsi dello stesso materiale senza soluzione di continuità, in una totale uniformità ritmica, altera la normale percezione del tempo, giungendo a risultati quasi ipnotici.

Le successive composizioni di Clementi sono caratterizzate da un singolare uso della politonalità, che consente di mettere in musica le illusioni ottiche delle figure di Max Escher. Ogni linea che forma il contrappunto, infatti, ha una chiara polarizzazione armonica, diversa da quella delle altre linee. L'ascoltatore è quindi portato ad un continuo cambiamento di "prospettiva" armonica, così come accade a chi osserva i piani pluriprospettici di Escher.

Negli anni ‘90 la produzione pianistica di Clementi è stata oltremodo ricca, ed il suo linguaggio, sempre ancorato ad un uso rigoroso del contrappunto, ha fatto propri anche alcuni elementi della musica folcloristica e del jazz, continuando tuttavia ad attingere al repertorio bachiano. Questa tendenza testimonia una concezione della creazione artistica che ricorre ad elementi preesisenti (privati, però, delle loro peculiarità e radicalmente decontestualizzati) come fonte primaria da cui attingere materiale sonoro. I risultati di questi repêchages sono  peraltro di estrema rilevanza ed originalità e si inscrivono in un percorso poetico di profonda coerenza. Una differenza rispetto ai brani pianistici del ventennio precedente consiste nella velocità: mentre tutti i lavori diatonici precedenti, da B.A.C.H. a Variazioni su B.A.C.H., prescrivono (almeno all’inizio) un tempo molto  rapido, giocando quindi sul continuum determinato da una polifonia pulviscolare, ora i frammenti tematici sono molto più percepibili grazie ad una scansione temporale generalmente lenta e spesso tendente ad un ulteriore rallentamento.

Se nel periodo dell’informale materico e ottico il parallelismo era più facile con le illusioni visive di Vasarely, nel periodo diatonico (e, per quanto riguarda la produzione pianistica, specialmente nei brani dal ‘91 in poi), la vicinanza alle esperienze di Escher si fa palese. Clementi, che ne approfondisce la conoscenza attraverso il libro di Douglas Hofstadter “Gödel, Escher, Bach. Un’eterna ghirlanda brillante[1], cerca ora una corrispondenza musicale delle sue illusioni ottiche.  Proprio Escher, del resto, aveva già studiato il rapporto tra illusioni ottiche e procedimenti musicali, come egli stesso scrive a proposito di Bach:“Può darsi che il canone sia vicino alla mia mania anti)simmetrica di riempire il piano. Bach giocò con la ripetizione, la sovrapposizione, l’inversione, la riflessione, l’accelerazione e il rallentamento dei propri temi in maniera, per molti versi, paragonabile al mio rispecchiare per traslazione e scorrimento i temi di figure riconoscibili. Ed è forse per questo che mi piace in particolar modo la sua musica[2].

Nello Studio sul Tocco del 1993 il ricorso a materiale preesistente non consiste nell’utilizzo di un determinato tema, bensì di un certo tipo di fraseggio: quello sillabico del corale luterano. Clementi raggiunge inoltre nuovi stadi di parziale indeterminazione del brano, prescrivendo all’esecutore di formare melodie (appunto nello stile di corale) utilizzando esclusivamente un gruppo di sei note nella mano destra (si bemolle, fa, re, do, la bemolle, mi bemolle) ed un altro gruppo di sei note, speculare, nella mano sinistra (si, mi, sol, la, do diesis, fa diesis). Le dodici note sono tutte diverse, così da completare il totale cromatico. Il pianista deve sempre suonarle tutte contemporaneamente (compatibilmente con l’estensione della mano), dando ogni volta maggiore evidenza ad una nota nella mano destra ed alla nota corrispettiva nella mano sinistra. Si ottengono così frasi melodiche variamente modellate nello stile del corale, basate su una sorta di contrappunto aleatorio dodecafonico a dodici parti! La parziale libertà lasciata all’interprete non può in alcun caso pregiudicare la chiarezza e l’originalità di questa composizione. I due gruppi vengono infatti reiterati ed elaborati come in un caleidoscopio, risultando continuamente cangianti, ma, nello stesso tempo, sempre identici a se stessi, proponendo in una nuova luce quel particolare connubio di uguaglianza e diversità, di statico e dinamico, che caratterizza l’estetica musicale di Clementi.

Dal 1998 ad oggi, Clementi è tornato a scrivere per pianoforte con rinnovata assiduità, ed ha prodotto in cinque anni ben sette lavori di indubbio interesse. Essi sono tutti accomunati da un particolare colore armonico, in virtù della politonalità che si determina con le sovrapposizioni di frammenti tonali ad altezze diverse. Determinando una continua variazione della tonalità dominante, attraverso la comparsa (o la scomparsa) di una voce, Clementi ottiene affascinanti sfasamenti nella percezione della polarità armonica, come Max Escher inganna l’occhio nelle sue celebri litografie (si veda Un altro mondo, Sopra e sotto) in cui il “sopra e il “sotto” sono intercambiabili a seconda dei punti di vista.

Il primo brano pianistico in cui possiamo apprezzare questi effetti è Loure (1998), costituito da tre brevi movimenti, caratterizzati dal ritmo ternario dell’omonima danza, e basati sul medesimo materiale tematico. Questo, come di consueto, è molto limitato, con precise connotazioni armoniche, e subisce sovrapposizioni sempre diverse, dando origine ad un contrappunto a quattro parti, in cui ogni voce ha una diversa tonalità. I tre movimenti presentano diversi andamenti: mosso (il primo), moderato (il secondo), lento (il terzo): il contrappunto viene quindi proposto in modo sempre più chiaro e l’ascoltatore ha modo di percepire gradualmente le affascinanti sovrapposizioni intervallari e la varietà dell’articolazione, come osservando la partitura sotto una lente di’ingrandimento di volta in volta più potente.
Vom Himmel hoch (1999) trae spunto dal celebre corale bachiano, di cui mantiene il fraseggio sillabico e il rigore del contrappunto a quattro parti. Questo è basato su quattro diverse linee, le quali vengono variate per aumentazione o per inversione, e danno luogo ad otto diversi movimenti, ognuno con altrettante nuove sovrapposizioni. Gli ultimi quattro movimenti non sono altro che il retrogrado dei primi quattro, secondo lo schema 1 - 2 - 3 - 4, 4 - 3 - 2 - 1. Le potenzialità sonore del pianoforte, come di consueto, vengono utilizzate solo in minima parte, tanto che la dinamica ha due soli livelli: p e pp possibile. Ciò non toglie, peraltro, che pur in una tanto ristretta gamma dinamica  sia possibile ottenere risultati di grande interesse timbrico, anche grazie alla pulizia delle quattro linee, due delle quali presentano tutte le note accentate, per indicare una più incisiva declamazione. Come in Loure, ogni voce ha una diversa polarità armonica, e l’ascoltatore è costretto a cambiare continuamente “angolazione” per inquadrare l’una o l’altra delle tonalità compresenti. Anche questo brano può essere ripetuto fino a tre volte, ogni volta sempre alla metà del tempo. Essendo la durata della prima volta di quattro minuti, va da sé che la durata totale delle tre ripetizioni raggiunga i 28 minuti, ottenendo risultati percettivi di particolare fascino ipnotico, e dando l’idea di un meccanismo stanco, in via di disgregazione.

Di meccanismo triste, crepuscolare, si può parlare anche a proposito delle Variazioni del 1999. Il tema consiste in un esacordo  (fa, mi, re, do, si bemolle, la) prima discendente, poi ascendente, che viene reiterato senza alcuna modifica interna attraverso la rigorosa trama contrappuntistica a quattro parti, con le consuete varianti dell’inversione e del retrogrado. Le voci, peraltro, non sono sovrapposte, ma alternate con una scrittura puntillistica, che conferisce una peculiare asciuttezza timbrica: tutto il brano, infatti, acquista un apparente carattere monodico, mancando del tutto le sovrapposizioni di due o più voci nello stesso momento.

La politonalità è qui meno evidente, poiché manca la compresenza simultanea di più voci. Il ritmo si basa su due sole unità: la croma e la minima, e presenta continue accelerazioni e rallentamenti, determinando un andamento quasi meccanico. Ma non si tratta di un meccanismo arido, bensì umano, in grado di esaurirsi in una disincantata malinconia. Il fascino di questo pezzo risiede nella coesistenza di monodia e polifonia, di regolarità e libertà (a livello ritmico, melodico e formale), di caos e ordine, e rispecchia in tal modo il concetto di contrappunto che si delinea attraverso le opere di Clementi. Le variazioni a cui il titolo allude sono le dodici riproposizioni della polifonia iniziale, ogni volta con un maggiore sfasamento orizzontale tra le quattro parti..

Con i due Blues del 2001 Clementi esplora le potenzialità combinatorie di dodici frammenti di Theolonius Monk, selezionati in base alla presenza del totale cromatico in ognuno di essi. In ogni Blues la struttura è a specchio, poiché la seconda metà non è altro che il retrogrado della prima, secondo uno schema analogo a quello di Vom Himmel hoch: 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12, 12 - 11 - 10 - 9 - 8 - 7 - 6 - 5 - 4 - 3 - 2 - 1. Il Blues 2 consiste nell’inversione del precedente; i due brani sono pertanto complementari e se eseguiti in sequenza formano un terzo Blues, con l’enunciazione delle quattro varianti: O - R - I - IR. I due Blues confermano la tendenza diffusa nelle più recenti opere di Clementi a basarsi sempre più su frammenti, brandelli di composizioni preesistenti. In questo caso, addirittura, Clementi lascia che i frammenti, senza alcuna elaborazione, costituiscano l’intero brano, esprimendo direttamente i propri contenuti, intrisi di memorie, stratificazioni, imprevedibili cortocircuiti percettivi.

Nel caso dei Blues, l’intervento dell’autore consiste soltanto nel selezionare i frammenti e nel collocarli in un certo ordine: tutto il resto sarà determinato dalla materia sonora stessa. Questo tipo di operazione non va però confusa con gli esempi Dada di collage o objets trouvés. Nel caso di Clementi, manca del tutto una volontà provocatoria, o un tentativo di usare l’opera d’arte come mezzo per riferimenti polemici (o umoristici, o moralistici, o politici) a realtà esterne. Semplicemente, Clementi, di volta in volta, fa propri i materiali preesistenti (selezionati peraltro con estrema cura: non certo “trovati per caso”!) e ne ricava una musica che non potrebbe essere altro se non la sua musica. Come per ribadire che il procedimento (o il metodo, o il criterio) con cui si opera sul materiale è ciò che determina l’identità del lavoro compositivo: il materiale stesso continuerà a mantenere una propria autonomia, limitandosi a farsi portatore di idee, intenzioni, espressioni derivate dalla sua interazione con altri oggetti o semplicemente con i metodi combinatori.

Discorso analogo per Nell’Invenzione 4 (2003), quattro voci intonano una melodia cadenzata nel ritmo ternario di 12/4, basata su tre sole note.La struttura è divisa in sei variazioni, di cui le ultime tre sono il retrogrado delle prime tre, secondo uno schema non troppo diverso da quello di Vom Himmel hoch e dei due Blues: 1 - 2 - 3, 3 - 2 - 1. Questa forma a specchio è evidenziata anche dal tempo e dalle altezze, visto che si ha un innalzamento di mezzo tono in ogni variazione fino alla metà del brano, con   conseguente abbassamento di mezzo tono e decelerazione dalla metà alla fine. Il fascino particolare di quest’opera risiede nel contrasto tra il profondo lirismo del tema intonato da ogni singola voce ed il complesso incrocio polifonico, che imprigiona la cantabilità in fitti intrecci contrappuntistici fino a rendere impercettibile il disegno di ogni singola linea. Il risultato è una massa di suoni legati ed amalgamati, che molto lentamente sale di altezza e poi, quasi rassegnatamente, torna indietro. La musica di Clementi, pur nell’assoluta astrattezza dell’artigianato compositivo, potrebbe indurre lo studioso a considerazioni di ordine filosofico, o ad individuare connotazioni emotive e risvolti semantici di vario ordine. Tuttavia, in questa sede si preferisce non addentrarsi in simili ambiti, anche considerando la soggettività di tal tipo di osservazioni.  Per dare un’idea di quanto il contrappunto di Clementi, dichiaratamente privo di espliciti riferimenti descrittivi, possa stimolare la fantasia dell’ascoltatore, si riporta la seguente osservazione di Renzo Cresti, che pur essendo relativa alla polifonia di Clementi degli anni Settanta, può risultare adeguata all’Invenzione 4: “la linea musicale non può più essere melodica, individualizzabile, ma totalmente repressa, come l’“individuo” anonimo della società burocraticamente organizzata, un’”organizzazione” non funzionale ai cittadini, ma corrotta e al servizio della classe dominante, così come la forma generale del contrappunto di Clementi non è funzionale a un disegno trasparente, chiaro e comprensibile, ma si fa caos e appare come mero agglomerato di individualità non riconoscibili. Un mondo volutamente freddo, dove il cielo è sudario dell’esistenza, l’assurda esistenza di linee “melodiche” stravolte in un sordo malumore che si inquieta ogni giorno con sentore di fatica e dolore: scorrono come un corteo di condannati”.[3]

 

Roberto Prosseda

 

1 - Adelphi, 1984 (pubblicato in lingua originale a New York nel 1979).

2 - Lettera di Max Escher a Ernst H. Gombrich. Riportato in Mattietti, op. cit., p. 67.

3 - Renzo Cresti: Aldo Clementi, Ed. Suvini Zerboni, 1990, pag. 58.