Professionismo e arte sono due mondi che spesso vanno di pari passo, specialmente nell'ambito della musica classica: i migliori musicisti sono tutti dei “professionisti della musica”, ma il concetto di “professionismo”, quando applicato ad una interpretazione musicale, non può trascurare l'efficacia della comunicazione del messaggio artistico.
Oggi è sempre più diffusa l'idea che un musicista professionale debba avere un totale controllo su ciò che fa: giustissimo, naturalmente, se non fosse che questa può diventare una priorità che va a discapito della condivisione emotiva e dell'approfondimento interpretativo. Sempre più spesso, purtroppo, oggi il professionismo fa rima con la prudenza, con l'assenza di slanci ed entusiasmi, con la paura di prendersi dei rischi interpretativi pur di salvaguardare un “contegno” professionale che non ammette cedimenti.
Il discorso è certamente complesso e delicato. Ma bisognerebbe forse riconoscere i limiti di un sistema di formazione musicale, diffuso in Italia, basato su un repertorio limitato e su modelli interpretativi spesso imposti come calchi da riprodurre.
Ad esempio, è più professionale saper suonare gli Studi di Chopin copiando pedissequamente l'incisione di Maurizio Pollini (pur senza eguagliarne la tensione musicale), o riuscire a commuovere il pubblico in un recital, a discapito di qualche nota sporca?
Meglio dare la priorità ad un'esecuzione senza note sbagliate ma con gravi errori di “pronuncia” musicale, o prendersi dei rischi per rispettare le articolazioni e il fraseggio indicati dall'autore??
E, per contro, è più grave sporcare un passaggio virtuosistico perché lo si esegue con slancio e passione, o suonare quel passaggio stando solo attenti a non sbagliare, e quindi senza il dovuto entusiasmo e coinvolgimento?
Roberto Prosseda