Il rapporto con il tempo è un elemento fondante di ogni interpretazione musicale. Il “tempo della musica, però, è ben diverso dal tempo che scandisce i ritmi quotidiani, in quanto si estende in un ambito chiuso, delimitato dalla durata della singola composizione: è un tempo al contempo interno ed esterno a noi stessi, ossia soggettivo ed oggettivo insieme.
La percezione del tempo da parte dell'ascoltatore è a sua volta soggettiva, e influenzata da tanti elementi, legati sia all'interprete, sia a fattori contingenti (riverbero della sala, distanza dalla fonte sonora, grado di ansia dell'ascoltatore, stabilità ritmica dell'esecuzione).
Una delle principali caratteristiche dei grandi interpreti (siano essi musicisti, attori, o danzatori od oratori) è quella di non avere mai un rapporto passivo, subordinato con il tempo. O, meglio, di non considerare il tempo come un'entità esterna a cui adeguarsi, ma, al contrario, come qualcosa che loro stessi possono plasmare, dandole la forma giusta in base alle esigenze espressive e drammaturgiche che la musica richiede, e al continuo feedback con il luogo in cui avviene la performance.
E, a ben vedere, alcuni grandi capolavori musicali, come, ad esempio, le ultime Sonate o gli ultimi Quartetti di Schubert, quando interpretate da artisti ispirati e carismatici hanno la capacità di farci “uscire dal tempo terreno”, portandoci in nuove dimensioni percettive, che rispondono ad altre leggi temporali.
Per dirla in altre parole, i grandi interpreti non “vanno a tempo”, ma “creano il tempo”. Del resto, l'ascoltatore percepisce la vertigine della velocità o l'incanto sospeso di un Adagio non soltanto a seconda della rapidità reale del tactus metronomico, bensì soprattutto in base all'energia motoria e alla tensione musicale comunicata dall'interprete. Questa non dipende solo dalla rapidità, dalla sapiente gestione dell'agogica e della dinamica, che sfrutta impercettibili cambi di tempo e di sfumature dinamiche in modo funzionale alla drammaturgia del brano.
Non basterebbe un lungo saggio per dissertare sulle infinite possibilità di gestire il tempo in musica, e non è questa la sede per tentare una più articolata analisi sull'argomento. Questo breve pensiero vuole, piuttosto, essere un incoraggiamento verso gli ascoltatori e gli interpreti a lasciarsi stupire e guidare dalla percezione soggettiva del tempo musicale, ad “ascoltarlo” nelle sue peculiarità.
Troppo spesso, ancora oggi, vi sono insegnanti di musica che insistono sull' “andare a tempo”, sul “rispettare il tempo”, come se il tempo fosse soltanto quello scandito dall'asticella del metronomo o dalle lancette dell'orologio, al di fuori della musica e di noi stessi. Invece sono certo che le più appaganti e intense esperienze musicali possano avvenire quando si recuperi un rapporto naturale, organico, con il tempo, ascoltando interiormente il proprio “tempo soggettivo”, e lasciando che questo sia plasmato dall'intensità della grande musica.
Roberto Prosseda